Questo blog è destinato solo e specificamente alla pubblicazione di atti e interventi relativi alla iniziativa di astensione alle elezioni del C.D.C. dell’A.N.M. che si terranno dall’11 al 13 novembre 2007.
Pubblicheremo qui poche cose, per non “appesantire” la lettura con un accumulo di “materiali”.
Questo blog, coerentemente con la logica dell’iniziativa astensionistica, non costituisce “gruppo”, né “corrente”, né alcun tipo di stabile aggregazione.
Tratta di una iniziativa del tutto “trasversale” e “aperta”.

Diversamente da quanto accade normalmente nei blog, gli articoli di questo blog non sono ordinati cronologicamente, ma logicamente, secondo uno schema di lettura che va dall'alto in basso.

Dunque, gli articoli più in evidenza non sono necessariamente gli ultimi pubblicati e le date degli stessi vengono modificate per mantenere l'ordine logico.


venerdì 12 ottobre 2007

Quando i problemi reali superano l'appartenenza al singolo gruppo

di Tomaso E. Epidendio
(Giudice del Tribunale di Milano)


E’ un dato di fatto che magistrati appartenenti a diverse correnti (o addirittura a nessuna), alcuni dei quali neppure si conoscevano personalmente, si sono trovati concordi nel considerare necessario un segnale forte di protesta, quale l’astensione, per rimarcare il divario che si stava creando tra singoli associati e il modo di operare della politica associativa, denunciando i rischi dell’adozione della logica dell’appartenenza.

Diversi sono i percorsi personali che hanno portato ciascuno a questo passo, nel mio caso i rischi (ancor maggiori) che degenerazioni correntizie avrebbero comportato con i nuovi assetti dell’ordinamento giudiziario.

I pericoli principali derivano a mio avviso da un riconoscimento solo formale dell’indipendenza che, pur nel rispetto delle competenze degli organi di autogoverno (e anzi proprio attraverso un abnorme aumento dei poteri di questi organi sui singoli giudici), finisce per rappresentare ormai un possibile “rischio interno” rispetto alla sottoposizione del giudice alla sola legge, soprattutto attraverso l’eccessiva burocratizzazione dell’attività che finisce per rendere oscure ed incerte le regole da rispettare, ed esporre i singoli giudici a reazioni di fatto incontrollabili.

Anche su uno dei temi più spinosi, quale la valutazione della professionalità, il nuovo art. 11 al comma 2 contiene una disposizione apparentemente tranquillizzante “la valutazione di professionalità ... non può riguardare in nessun caso l’attività di interpretazione di norme di diritto, né quella di valutazione del fatto e delle prove”; però nello stesso comma alla lett. a) si stabilisce che nel valutare la capacità si debba tenere conto dell’“esito degli affari nelle successive fasi e nei gradi del procedimento e del giudizio”, mentre il successivo comma 4 lett. f) prevede che si tenga conto delle “segnalazioni pervenute dal consiglio dell’ordine degli avvocati sempre che si riferiscano ... ai comportamenti che denotino evidente mancanza di ... preparazione giuridica”: tutti questi parametri valutativi implicano giudizi su come è stata interpretata la legge e su come sono stati valutati i fatti e le prove.

L’elasticità e parziale contraddittorietà delle formule usate, che consentono la più ampia discrezionalità e che coinvolgono aspetti di interpretazione della legge, costituiscono perciò un indubbio fattore di rischio, specie in presenza di previsioni radicali sull’avanzamento in carriera quali la dispensa dal servizio stabilita dallo stesso art. 11 comma 13. Non sembra davvero che sia un evocare fantasmi del passato, richiamare alla memoria il mai abbastanza vituperato esame da aggiunto di cui già Cordero ha detto tutto il male che si doveva e si deve dire.

Analoghe considerazioni possono essere sviluppate in tema di tipizzazione e burocratizzazione del procedimento disciplinare e cautelare, il cui clamore attuale è di per sé significativo delle difficoltà e dei rischi di cui stiamo parlando, soprattutto in un quadro di regole estremamente complicato che, temo, si caratterizzerà per l’emanazione di circolari sempre più lunghe e dettagliate, variabili ai diversi livelli territoriali (tra C.S.M. e Consigli giudiziari, o nuove Commissioni), senza che siano neppure previsti limiti o possibilità di reazione in caso di superamento dei carichi di lavoro tollerabili o di insufficienza o inidoneità delle strutture messe a disposizione, facendo ricadere sul singolo magistrato ogni responsabilità.

Certo sarebbe ingeneroso e non sarebbe neppure fondato ritenere che tutti i problemi di cui sopra nascano soltanto dall’insufficienza della politica associativa. Sarebbe però altrettanto sbagliato nascondersi l’esigenza, in questo contesto, di una radicale presa di distanza dalla logica dell’appartenenza nella politica associativa.

Suggestivo e illusorio è infatti l’argomento secondo cui non ci si dovrebbe preoccupare, in quanto quello che importa sono le persone, perché sono queste a far funzionare le istituzioni bene o male, ed anzi a maggior ragione bisognerebbe andare a votare proprio per eleggere i migliori e consentire la miglior azione possibile.

In realtà la forma delle istituzioni in cui ci si trova ad operare non è indifferente e condiziona e plasma l’azione dei singoli, di tal che occorre avere una “buona” forma ordinamentale che garantisca dagli eccessi, perché i singoli possano agire per il meglio e perché tutti noi possiamo sentirci garantiti nella nostra indipendenza (il fatto che sia esistito Pericle non ci tranquilizza certo dai pericolo della “monarchia del primo cittadino”).

Non credo quindi che, in questo contesto e con queste premesse, una protesta trasversale che denunci la logica dell’appartenenza possa essere liquidata come una mera forma di “qualunquismo”.

Tutti noi sappiamo che il termine “qualunquismo” deriva dal movimento sorto intorno alla rivista dell’Uomo Qualunque fondata nel 1944 da Guglielmo Giannini e animata da una viscerale ostilità verso la politica e soprattutto dei partiti antifascisti, che ebbe un certo successo elettorale, talmente effimero da non superare la legislatura: analoga sorte toccherà un decennio dopo ai “poujadisti” francesi, uniti intorno a Pierre Poujard, fondatore dell’Unione dei Commercianti e degli artigiani, anch’egli ricondotto a un qualunquismo di destra con venature xenofobe.

Confondere questi fenomeni con il presente significa a mio avviso non aver colto differenze essenziali tra chi esprime solo generica avversità verso la politica (in questo caso sarebbe quella associativa) ma poi contraddittoriamente si costituisce anch’esso in formazione politica, e chi invece non contesta la necessità della “politica (associativa)”, ma solleva specifiche critiche sugli indirizzi presi su problemi ben individuati, chiedendo ben precisi comportamenti.

Penso che alla forza dei valori imposti dal fatto non si possano opporre ragioni procedurali di fedeltà alla linea del gruppo di cui si fa parte e che, in questi casi, la logica dell’appartenenza (proprio per difendere i valori che il gruppo rappresenta) comporti la necessità di una protesta che è fisiologica e istituzionale e che sarebbe un errore non considerare o delegittimare, perché significherebbe privare il gruppo medesimo (corrente o movimento che sia) della necessaria dialettica tra i suoi vertici (o rappresentanti) e i propri associati.

La trasversalità della protesta e il fatto che la medesima non voglia rappresentare un gruppo autonomo, più che una contraddizione dovrebbe essere vista come un segnale della gravità delle ragioni al suo fondamento, ragioni più estese rispetto a quelle di una singola corrente e tali da riunire consenso anche tra i diversi gruppi, secondo una dinamica ben conosciuta, per la quale sembra inutile scomodare la teoria delle reti sociali, ma che comunque non può far dimenticare l’insufficienza degli approcci tradizionali (sottesi all’accusa di qualunquismo) ad esaminare fenomeni moderni che ormai presentano una ben diversa complessità di rapporti e legami contestuali di diversa forza tra i vari individui.

Credo invece che alla base di questo fenomeno stia, a mio avviso, l’emersione di una visione più concreta e realistica della medesima esigenza che sta a cuore a tutti nell’associazione, quella di tutelare l’indipendenza della magistratura, e dei problemi che questo obiettivo comporta e che hanno evidenziato insufficienze lamentate da più parti: emblematico ad esempio quello delle rivendicazioni retributive da più parti avanzate, che non possono certo essere sdegnosamente liquidate come una bassezza rispetto alla tutela di più alti principi, posto che una delle forme più larvate e insidiose di attacco al prestigio e all’indipendenza di una istituzione è proprio quella di impoverirla in sé e nei suoi componenti.

Solo attraverso una netta inversione di tendenza e un progressivo abbandono della stretta logica dell’appartenenza (di cui è figlia la stessa accusa di qualunquismo) si possono affrontare queste nuove ed esiziali sfide, per vincere le quali il ruolo dell’associazione è e rimane fondamentale ma solo a patto che si distacchi definitivamente dalle logiche denunciate.

Per ottenere ciò è a mio avviso necessario un segnale forte e questo è dato dall’astensione.


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