Questo blog è destinato solo e specificamente alla pubblicazione di atti e interventi relativi alla iniziativa di astensione alle elezioni del C.D.C. dell’A.N.M. che si terranno dall’11 al 13 novembre 2007.
Pubblicheremo qui poche cose, per non “appesantire” la lettura con un accumulo di “materiali”.
Questo blog, coerentemente con la logica dell’iniziativa astensionistica, non costituisce “gruppo”, né “corrente”, né alcun tipo di stabile aggregazione.
Tratta di una iniziativa del tutto “trasversale” e “aperta”.

Diversamente da quanto accade normalmente nei blog, gli articoli di questo blog non sono ordinati cronologicamente, ma logicamente, secondo uno schema di lettura che va dall'alto in basso.

Dunque, gli articoli più in evidenza non sono necessariamente gli ultimi pubblicati e le date degli stessi vengono modificate per mantenere l'ordine logico.


giovedì 25 ottobre 2007

Se vuoi aderire, condividere, criticare ...

Se vuoi aderire all'astensione o condividere le tue opinioni sul punto o criticare la nostra posizione o comunque intervenire, scrivici cliccando ____qui ___

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Il "manifesto" dell'astensione

INVITO ALL’ASTENSIONE

alle elezioni per il rinnovo del Comitato Direttivo Centrale dell’Associazione Nazionale Magistrati dell’11/13 novembre 2007


La gravissima crisi della giustizia invoca che, in tempi brevissimi, il C.S.M. sia pienamente restituito – per incidenza e autorevolezza – al suo ruolo istituzionale.

Perché ciò accada è necessario che l’A.N.M. non costituisca copertura delle logiche di appartenenza nel C.S.M. e che si adoperi perché le correnti divengano sempre più spazio di elaborazione culturale e sempre meno luoghi di gestione di potere.

I sottoscritti magistrati, appartenenti a diversi orientamenti culturali (e alcuni anche iscritti a gruppi e correnti diverse), ritengono dunque assolutamente necessario un segno forte di protesta che invochi forte discontinuità rispetto alle prassi sin qui seguite dal C.S.M. e dall’A.N.M..

Ciò che i sottoscritti magistrati si propongono non è la creazione di un nuovo “soggetto politico”, ma la dismissione delle prassi negative che vanno sotto il nome di “correntismo”.

A tal fine propongono che la protesta assuma la forma della

ASTENSIONE DAL VOTO

in occasione delle prossime elezioni per il rinnovo del Comitato Direttivo Centrale dell’Associazione Nazionale Magistrati.

Un’astensione che:

- non vuole creare nuova appartenenza mediante la formazione di nuovi gruppi associativi;

- non è funzionale alla candidatura ad alcunché di nessuno tra i sottoscrittori né al sostegno ad alcuna candidatura altrui;

- non è contro l’A.N.M. ma per provocare nell’A.N.M. una profonda riflessione autocritica.

I Promotori:

Stefania Barbagallo (Sost. Procuratore della Repubblica presso il Trib. per i Minorenni di Catania)

Domenico De Biase (Giudice del Tribunale per i Minorenni di Roma)

Tomaso Epidendio (Giudice del Tribunale di Milano)

Felice Lima (Giudice del Tribunale di Catania)

Stefano Racheli (Sost. Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Roma)

Stefano Sernia (Giudice del Tribunale di Lecce)

Maria Teresa Spagnoletti (Giudice del Tribunale per i Minorenni di Roma)

Lavinia Spaventi (Giudice del Tribunale di Sorveglianza di Roma)



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mercoledì 24 ottobre 2007

Politica, democrazia e conquista del potere

di Stefano Racheli
(Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Roma)

A chiedersi se ci sia qualcosa di meglio della democrazia, la risposta è nota: la democrazia è il minore tra i mali; non è tutta d’oro, ma non si è trovato nulla di meglio; è il frutto imperfetto dell’imperfettissima natura umana, e via dicendo.

Una risposta che - diciamolo – pesta acqua nel mortaio e non fa fare un passo avanti.

Propongo quindi un quesito diverso: c’è qualcosa che ha inceppato, nel suo cammino, il procedere della democrazia? A mio avviso, sì qualcosa c’è, è sotto gli occhi di tutti ed è rimediabile.

E’ infatti accaduto che - nata la democrazia come forma antagonista del potere assoluto e autoritario – le istanze e preoccupazioni “democratiche” abbiano avuto ad oggetto soprattutto la risposta a due quesiti di fondo: chi debba detenere il potere e in quali forme esso possa acquistarsi e debba esercitarsi.

Rimanevano - come dire? – defilati due interrogativi di pari (di maggiore?) importanza: può la democrazia sopravvivere all’assenza di una cultura diffusa che le sia omogenea? Ma - soprattutto e paradossalmente – corrisponde a verità il fatto che la democrazia sia a rischio a causa del sistema da lei stessa “inventato” per la conquista del potere?

Detto in altri termini, la “caccia al voto”, le manipolazioni della pubblica opinione, le menzogne sistematicamente poste a fondamento della “ragion di Stato” (di questo o quello schieramento), la sovranità dei sondaggi, quali strumenti per la conquista “democratica” del potere, non sono la tomba della democrazia?

C’è insomma il fondato sospetto che la conquista del consenso - strada obbligata in democrazia per la conquista del potere – finisca per ottundere (e talora per uccidere) proprio quella democrazia che si vuol supportare.

Certo, nel mondo della luna possono ipotizzarsi schieramenti che non mentano, che non manipolino, che chiamino le cose col nome e col cognome, e via discorrendo. Nel mondo della luna, appunto, ma qui tra noi le cose vanno diversamente: posto il fine, è inevitabile che molti scelgano i mezzi in base solo alla loro efficacia e senza andare troppo per il sottile.

Non c’è dunque via di uscita?

Penso che un rimedio serio sia quello in cui il rafforzamento della democrazia, la credibilità delle promesse e delle persone non si fondi tanto (o almeno non solo) sul corretto esercizio del potere, ma su un’attività politica che rinunzi alla conquista del potere, così affrancandosi dai mille, obbligatori adempimenti cui deve bruciare incenso colui che il potere deve conquistare.

E’ infatti evidente che non possa abolirsi né l’esercizio del potere (e dunque la sua conquista), necessario in ogni tipo di società, né la ricerca del consenso.

Può però evitarsi che tutta la politica si riduca a conquista ed esercizio del potere.

Tanto più sarà ragionevole sperare nel corretto esercizio del potere quanto più ci sia una forte azione politica (non dunque un’azione meramente culturale o moralizzante) che bilanci le tendenze “devianti” di chi cerca la conquista del potere.

L’astensione che auspichiamo - oltre che essere un forte grido di protesta – intende essere proprio questo: un’attività squisitamente politica diretta a rimuovere quelle ideologie (nel senso proprio di maschere indossate dal potere reale) che, utilizzate dal Potere, finiscono per dar vita alle derive di regime.

Siffatte attività politiche (l’astensionismo è solo una delle tante attività ipotizzabili), rappresentando una forma atipica di opposizione (quella tipica è rappresentata da chi esercita il potere nei modi proprio delle minoranze), mutua dell’opposizione il ruolo, la dignità, la fondamentalità.

L’opposizione-senza-potere risulta per il Potere assai più molesta degli avversari che si pongono come pretendenti al Potere. Non a caso siamo stati indicati, con malcelato e esplicito disprezzo (a mio avviso del tutto cieco), come “astensionisti”, “blogghisti” e quant’altro: la nostra natura infatti ci rende disomogenei rispetto alle logiche che regolano i rapporti tra coloro che aspirano al potere.

Noi, a rigore, non siamo neppure un avversario, visto che non concorriamo per conquistare potere: siamo, a ben vedere un ideale e un’idea con cui è necessario confrontarsi (come è noto gli ideali e le idee sono ostacoli ben più ostici di qualunque propaganda o slogan).

Auspichiamo dunque che in tanti possano sentire il richiamo – nobile e politico a tutto tondo – verso un ruolo fondamentale: l’opposizione senza potere.

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sabato 13 ottobre 2007

L'adesione del Comitato XXVI Novembre

dal Comitato XXVI Novembre


Il Comitato XXVI Novembre, in merito alle prossime elezioni per il rinnovo del Comitato Direttivo Centrale dell’Associazione Nazionale Magistrati, rileva quanto segue:

- abbiamo in più occasioni messo in evidenza alcune tra quelle che, a nostro avviso, costituiscono le principali disfunzioni dell’attuale assetto dell’Associazione Nazionale Magistrati;

- abbiamo sottolineato l’importanza di un rigido statuto di incompatibilità, volto ad impedire che chi debba ricoprire ovvero abbia ricoperto cariche all’interno dell’A.N.M. possa transitare, senza soluzione di continuità, da e verso organismi istituzionali le cui prerogative li collocano in posizione di obiettivo conflitto di interessi rispetto alla funzione di rappresentanza della categoria, che l’A.N.M. dovrebbe svolgere;

- abbiamo altresì lamentato l’assenza di una sincera dialettica democratica in seno all’A.N.M., dovuta alla “coabitazione forzata”, all’interno della Giunta Esecutiva Centrale (il “governo” dell’associazione), di tutte le correnti elette al Comitato Direttivo Centrale (il “parlamentino” dell’A.N.M.), coabitazione che finisce con il favorire una sempre più marcata autoreferenzialità della classe dirigente, venendo meno la fondamentale funzione di controllo affidata alle opposizioni;

- riteniamo, pertanto, che oggi l’A.N.M. non possa che svolgere una attività di rappresentanza delle istanze dei soci scarsamente efficace, e che in questo attuale contesto un atto come l’esercizio del voto sia suscettibile di produrre mutamenti solo apparenti, potendo incidere unicamente su equilibri tutti interni al sistema di governo, che resterebbe pur sempre affrancato da qualunque forma di verifica, e che sconterebbe le difficoltà di sempre nei delicati rapporti con le istituzioni esterne all’A.N.M..

Per queste ragioni, dichiariamo la nostra adesione alle proposte di astensione dal voto, da più parti avanzate, non già nella presunzione, né tanto meno con l’auspicio, di delegittimare l’A.N.M. - convinti, come siamo, che alla fine conteranno, come è giusto che sia, i voti espressi e non certo i consensi negati, che mai potrebbero rappresentare un risultato di cui appropriarsi - bensì unicamente per rappresentare, qui ed ora, il nostro disagio e, al contempo, la nostra speranza che in futuro il nostro voto acquisti un maggior peso nella determinazione degli equilibri dell’Associazione.

(decisione del direttivo del Comitato, adottata il 9 ottobre 2007)

Napoli, 11 ottobre 2007

Il segretario

Sergio Palmieri

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venerdì 12 ottobre 2007

Le ragioni dell'astensione alle elezioni del C.D.C. dell'Associazione Nazionale Magistrati

di Stefano Racheli
(Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Roma)

Vorrete scusare l’insistenza, ma il punto mi sembra cruciale. Ho cercato più volte di spiegare perché e per come l’astensione dal voto alle prossime elezioni di novembre del C.D.C. [Comitato Direttivo Centrale] dell’A.N.M. [Associazione Nazionale Magistrati] sia, a mio avviso, l’unico mezzo per scuotere il sistema. Molti colleghi, però, mi hanno manifestato una certa perplessità, sembrando loro che un atteggiamento meramente “passivo” potesse, alla fine, risultare perdente nei confronti di un comportamento più fattivo e partecipativo.

L’obiezione non solo non è peregrina, ma, al contrario, è molto seria e dunque doverosamente mi sono fatto carico di approfondire la questione. Sono giunto alla conclusione che l’astensione – molto più che essere uno mero strumento-idoneo-al fine (fungibile con altri strumenti analoghi) – è il volto necessario (e dunque infungibile) di chi – apparendo (sconsolatamente) destinato a essere minoranza (perdente) a vita – si interroghi su quali possano essere gli strumenti per “contare”.

Sperando di non essere considerato un testardo, passo a dare conto di siffatta affermazione.

Parto dall’evidente necessità – a fronte del collasso del sistema-giustizia – di compiere qualcosa che concretamente produca bene, come si propongono tutti i bene-intenzionati: un qualcosa che non abbia solo valenza di nobile ma sterile protesta.
Insomma, venendo al quesito di fondo, è possibile “cambiare il mondo senza prendere il potere”?

Ho rifatto le bucce a me stesso e – mi scuserete la pervicacia – sono giunto alla conclusione che il non-voto, quale rifiuto di condividere il potere, è molto più che una protesta, un porre sul tappeto una questione di fondo: l’organizzazione dell’associazionismo.

I valori di civiltà insiti nella giurisdizione sembra – a sentire gli attivisti dell’A.N.M. – possano essere tutelati solo militando in una “corrente” (o simili).
Esistono invece altre forme – esse pure collettive – altrettanto incisive di quelle note.
Una è quella di promuovere un movimento paritario che rifiuti di considerare “bene” ciò che piove dall’alto, ma voglia proporre innanzitutto il “bene” che sorge dal basso.

Non cerchiamo di distruggere gli apparati per proporre, al loro posto, il nostro “bene”, ma lo proponiamo hic et nunc per ciò solo che rifiutiamo le regole degli apparati.

Un percorso – il nostro – che per sua natura non può essere irreggimentato nelle forme usuali (ché in tal caso approderebbe inevitabilmente al “già visto”), ma, come un fiume che scorre fuori dell’alveo usuale, rischia sì di arenarsi, ma con ciò paga il prezzo dovuto al nuovo, all’inventiva, al libero esercizio della critica, all’azione che sia autenticamente frutto di impegno corale e non agire di un’élitte (oligarchia?) che si arroghi il diritto di parlare per tutti. Le decisioni “in nome della gente” non sono affatto una garanzia e la quotidianità sta lì a dimostrarlo.

Un “movimento” che voglia minare mali antichi e incancreniti non può essere “moderato”: deve chiamare i fatti con il loro nome e cognome, senza edulcorare e senza mediare.

Non che la politica debba essere solo “movimento”, ma essa ha bisogno (anche) di “movimento” se non vuole scadere a stracca ripetizione di slogans dietro cui nascondere interessi affatto particolari, per non dire egoistici.
Noi non ci limitiamo a rifiutare di votare oggi per condividere questo potere, ma poniamo sul tavolo un quesito di ben più vasta portata: è più importante (e coerente) marciare verso la presa del potere o verso la crescita della nostra influenza sul potere (quello di oggi o di domani, poco importa)?

Il rifiuto di votare è dunque l’affermazione di un nuovo modo di fare politica: un “muoversi contro-e-oltre" che, per sua natura, è anti-istituzionale (nel senso, sia chiaro, che ripudia di cristallizzarsi in forme date) e si muove continuamente “oltre ogni cosa che possa contenere o fermare il flusso creativo della ribellione”.

E’ per questo, soprattutto, che non abbiamo un programma: perchè il nostro “programma” è di criticare – continuamente e spietatamente – i programmi fatti dall’“istituzione”.

Dunque la nostra posizione, se pur assume le fattezze di un “no”, è assai feconda e per nulla improduttiva. Il “no” infatti è dirompente perché contesta che ci sia necessaria continuità nelle forme di difesa dei valori della costituzione (e dunque prospetta come non necessarie le “correnti”); il “no” non è digeribile da parte degli apparati, in quanto sfugge alle regole della loro organizzazione del potere e anzi, al contrario, postula forme organizzative affatto diverse; il “no” non imita le forme in cui si esercita il potere attuale, ma costituisce epifania di uno spostamento radicale del potere: dalla sede istituzionalizzata a quella della dialettica, della partecipazione diffusa, del confronto reale e paritario. Il “no” apre un nuovo mondo concettuale, apre crepe negli assetti del potere esistente (e dunque spazi autonomi), si muove, sperimenta e crea. Ma c’è di più.

Il “no” non si preoccupa di creare nel sistema le condizioni per il superamento del sistema (rimanendovi dentro fino al detto superamento): il “no” è la rivoluzione adesso: come è stato detto, la finalità non è costruire una forza all’interno del sistema che poi (quando?) produrrà una “rivoluzione”, ma dar vita a una forza dirompente che spinga oltre-e-contro adesso.

Siamo dunque, a ben vedere, nel cuore della critica (talora implicita) che ci viene mossa secondo cui la pretesa di cambiare lo stato delle cose senza prendere il potere (il potere di questo sistema, in questo sistema, con gli strumenti di questo sistema) sia del tutto irreale.

Credo, al contrario, che la pratica del “no” – per gli effetti che le conseguono – sia il massimo di ciò che oggi, hic et nunc, sia realisticamente praticabile a voler cambiare le cose.

Non trovo di meglio, per chiarire il mio pensiero, che rubare le parole a J. Holloway (con avviso che il suo pensiero si radica e si muove in tutt’altro contesto): “Non si tratta di definire questi no, di concentrarli in un partito o in un movimento, ma di aiutarli a rompere le definizioni, a svilupparsi, a estendersi e moltiplicarsi. Non stiamo vivendo in una casa solida e resistente. Viviamo in un edificio vecchio, decrepito, pericoloso e pieno di crepe nascoste da cartelloni pubblicitari: dobbiamo fare di tutto per scoprirle e farle estendere, moltiplicare e unire, qui e ora, fino a far crollare l’edificio”.

Come ebbe a dire un “rivoluzionario” del nostro tempo, “siamo donne e uomini e anziani abbastanza normali, cioè ribelli, scontenti, scomodi, sognatori”.
Credo che tutti i magistrati “abbastanza normali” siano, al fondo, ribelli, scontenti, scomodi, sognatori: si tratta di fare emergere questa loro natura che il sistema cerca in tutti i modi di reprimere e nascondere.

Il sistema sembra sappia sempre dove andare, propaganda questa sua sicurezza e cerca di spacciare anche gli insuccessi più evidenti come sue conquiste.

Noi, “rivoluzionari”, non pretendiamo di sapere sin d’ora, di qui sino alla consumazione dei secoli, il da-farsi: sappiamo però benissimo ciò che non va ora e vogliamo dire in libertà i nostri “no” (soprattutto quelli che nessuno dice).

Non ci interessa (come interessa al sistema) celebrare il passato, perché la storia narrata dagli apparati è pervasa dalle categorie utili al sistema: è una storia solo di grandi imprese e grandi uomini.

La storia, in sé così bella, può tramutarsi in un grande alibi e in un’ottima scusa per non pensare al presente.

Non ci interessa precorre il futuro perchè ancora non sappiamo quali forme prenderà.
Ci interessa il presente, quello che può essere vulnerato dai nostri “no”.

Con avviso (essenziale) che uno spirito in tanto è “rivoluzionario” in quanto vuole stravolgere il sistema eliminando ciò che lo appesantisce e lo perverte.

Non dunque, sic et simpliciter, una battaglia contro questo sistema, ma più precisamente contro la gravissime disfunzioni che lo permeano. La puntualizzazione è d’obbligo, al fine di evidenziare come nessuna contraddizione di principio ci sia tra chi tali disfunzioni vuol combattere nelle correnti e chi, invece, fuori.

Neppure c’è contraddittorietà in chi decide di assumere, come dire?, una doppia cittadinanza, essendo compatibile, sempre in linea di principio, un doppio impegno.

Dunque, concludendo, non mi sentirò, non andando a votare, un disilluso che ha dismesso le armi, appendendo al chiodo la spada e le speranze.

Mi sentirò nel bel mezzo della battaglia, armato di bei “no”, in movimento verso fuori, percorrendo strade che meglio si delineeranno cammin facendo, confortato dalle mie utopiche aspirazioni, ma sorretto dal contributo di pensiero di tanti.

Camminare al buio – lo so – è pericoloso, ma è assai meglio che camminare su una bella strada illuminata che non porta da nessuna parte o, peggio, conduce diritta diritta nel precipizio.

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Una riflessione necessaria

di Stefano Racheli
(Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Roma)

1. Il “bel tempo che fu”.

Quando nell'A.N.M. [Associazione Nazionale Magistrati] sorsero (e prosperarono) le “correnti”, esse costituirono, per l’assetto allora dominante, un elemento, a torto o ragione, dirompente: furono, in breve, rivoluzionarie. E furono tali perché costituivano un contro-sistema rispetto ad un assetto che ripetendo, mutatis mutandis, schemi culturali e istituzionali pre-costituzionali, era diventato un enclave sorpassata dall’evolversi del sistema socio-politico generale. Il “vecchio” sistema non annoverava solo fascisti e farabutti, ma anche galantuomini e giuristi di vaglia: erano però oggettivamente sorpassati. Anche oggi bisognerebbe, ben più di quanto avviene, interrogarsi non solo e non tanto sulla “moralità” delle correnti, quanto sul loro essere o non essere sorpassate dai tempi.

La consonanza delle “correnti” con il sentire del sistema politico generale consentì loro di ripetere grandezze e miserie del detto sistema, anche per effetto del fiancheggiamento che operarono rispetto ai partiti imperanti (PCI e DC), magari anche solo per assonanza culturale e ideale. Ne conseguì che, per un non breve periodo, i problemi (sempre politici, mai tecnici!) della politica erano gli stessi della magistratura e viceversa: entrambe parlavano il linguaggio della società, entrambe ne affrontavano i problemi.

2. Il (non bel) tempo che è.

Il mondo post-comunista e globalizzato è veramente un altro pianeta: i governi “nazionali” si sono ridotti a governi “locali”, con incredibile accelerazione nei cambiamenti, con evidente caduta nel controllo del potere, con inevitabile dislocazione dei poteri politici fondamentali nei centri “tecnici internazionali”, con un corrosione del principio di legalità (nel senso che mentre esiste una società globalizzata, non esiste una corrispondente legalità globalizzata).

Nella notte della caduta delle ideologie, nella quale tutti i partiti sono bigi; nel mutarsi dello scenario ove si esercita il potere politico; nel costituirsi del potere politico sempre più come “potere” che come “politico”, sono venute meno le assonanze ideologiche (salvo – qua e là – qualche onda lunga).

L’A.N.M. è divenuta a sua volta (come a suo tempo l’U.M.I. o la Consulta del Regno che ancora era operante negli anno ’70) un’enclave dove si confrontano soggetti (le correnti) sorte in altra epoca, su altre problematiche, con altri fini: questi soggetti, come pugili suonati, seguitano a ripetere meccanicamente comportamenti e schemi di lotta che avevano significato sul ring di un’epoca tramontata.

La distinzione tra le correnti è oggi più formale che sostanziale se si assume come parametro quella della fuoriuscita da un sistema che in nulla produce giustizia. Intendo dire che politicamente non c’è grande differenza tra le correnti perché esse rispondono in modo sostanzialmente identico al quesito di fondo: alla domanda “volete mantenere in vita l’attuale sistema?” esse, nei fatti, rispondono sì. Di qui l’ipertrofia della questione morale (che è sempre esistita e sempre esisterà, con avviso che la dominante Unicost [Unità per la Costituzione] di oggi non è più “immorale” della dominante M.I. [Magistratura Indipendente] di ieri; e con ulteriore avviso che, a ben vedere, qualche peccatuccio sulla politica coscienza lo hanno tutti); di qui lo spaesamento dei magistrati, la perdita di spessore politico del C.S.M. [Consiglio Superiore della Magistratura], l’incoerenza (politica) di alcuni settori dell’A.N.M. che - nati come forze dirette ad evidenziare le contraddizioni del sistema - si avviano ad appiattirsi sulle posizioni di una delle componenti essenziali del vecchio sistema (M.D. [Magistratura Democratica]) carica di meriti, ma anche di colpe storiche e, per di più, vessillifera del conservatorismo progressista.

Negli anni ’90 è poi piovuto su bagnato. L’attuale omogeneizzazione delle correnti - tutte tese a conservare in vita l’enclave - è stata infatti catalizzata e accresciuta dal berlusconismo che ha di fatto paralizzato la politica associativa imponendole comportamenti e tempi obbligati. I comportamenti e i tempi obbligati sono la morte della politica la quale, per definizione, è scelta: di valori, di obiettivi, di strategie, di tattiche.

L’A.N.M. ha finito per essere ostaggio dell’“anti” e dei trend che in esso si radicano. Gli esempi sono numerosi. Come si fa a dire sì alla salva-Previti? Certo non si può. Ma in un sistema dove i tempi sono tali da diventare più che un danno una barzelletta, dovremmo chiederci se per caso non sia opportuno invocare prescrizioni brevissime per evitare una parvenza di funzionalità: non è forse meglio che il processa muoia subito di inedia piuttosto che si trascini per anni per poi morire di vecchiaia, quando tutti si sono dimenticati di lui? Ma non basta. A parlare di azione penale facoltativa (sia pure nelle forme in cui, nel processo penale minorile, si chiede l’irrilevanza del fatto) c’è da farsi linciare. Sarebbe - si dice - il trionfo dell’impunità dei potenti. Come se il naufragare dei processi degni di questo nome, nell’immensa palude dei “processetti” non fosse la vittoria (vistosa ed arrogante) dei potenti contro i diseredati e gli esclusi. Insomma siamo all’angolo e siamo così spaventati da non vedere che se il sistema è decotto e non riesce ad autoemendarsi, occorre fare una politica “antisistema”: la sorte di chi non sappia rischiare (vedi ex Giovani Magistrati, ex Impegno per la Legalità, ex Gruppo Paolo Borgna) è segnata: o omologarsi o morire. E molti, pur di “contare” (nel sistema) si stanno omologando se già non sono omologati.

Questa caduta di identità trova radici nella più volte evocata globalizzazione (è stato detto che “l’identità è la questione all’ordine del giorno”. Cfr Z. Zarman, Intervista sull’identità, Laterza), ma, per quanto ci riguarda, rispecchia la caduta di identità verificatasi nel sistema di riferimento. Da sempre, infatti, il microsistema (A.N.M.) ripete gli schemi del macrosistema politico generale, il quale oggi è costretto a “leggere” come “persone di sinistra” Mastella, Bobo Craxi, Intini, Sgarbi etc.. E tutti fanno finta di credere che sia perfettamente vero. Perché tutto ciò? Perché, a mio avviso, anche il centro sinistra è “dis-orientato”, incapace di rispondere alla domanda di fondo (cosa vuol dire “essere di sinistra” nel 2007? La risposta, beninteso, deve essere politica e non certo “morale”, atteso che non basta essere galantuomini per essere “di sinistra”) e dunque sballottolato tra gli ideali (che certo albergano al suo - come al nostro - interno) e la voglia di “contare” nell’attuale sistema. Insomma siamo alle solite: si tratta di scegliere tra contare nel sistema o cantarle al sistema.

Ma - il punto è cruciale - occorre tener presente un altro fattore. La situazione sociale è così piena di angoscia, incertezza, “esclusione” che è diffuso un desiderio, vivissimo, starei per dire sitibondo, di “novità”. E’ stato scritto: “L’avanzata del Nuovo di oggi non è la ricerca futile della novità ad ogni costo, ma segna la fine dei vecchi riferimenti simbolici. Quando una società accetta e insegue, con tanta forza come la nostra, le novità fino al punto di premiare forze politiche nate da pochissimo, è evidente che sente esauriti i modelli sui quali era costruita” (cfr Ida Magli, La bandiera strappata. Il corsivo è mio).

E’ per questo che, a livello nazionale, certe politiche incontrano tanto consenso: perché hanno introdotto cambiamenti forti (poco importa se il contenuto è incommestibile) che effettivamente stravolgono il sistema.

Il difendere la status quo ante appare dunque battaglia di retroguardia che rischia di far apparire la cialtroneria come l’unica depositaria del “nuovo”.

Se dunque un atteggiamento “rivoluzionario” appare doveroso; se è opportuno che la strategia si modelli secondo le necessità imposte da siffatto atteggiamento, anche tatticamente si dovrà operare secondo l’adagio “a brigante, brigante e mezzo”: alla rivoluzione berlusconiana, va opposta una rivoluzione ancor più vistosa e appetibile.

Talora ho invece l’impressione che taluno, preso anche lui da desiderio di “forte” novità, si proponga obiettivi che, al più, possono dare la sensazione psicologica di una forte novità, ma, se esaminati criticamente, alla luce di quella che dovrebbe essere la nostra politica, si scopre che di nuovo c’è ben poco: c’è quel tanto che basta per sentirsi “nuovi”, rimanendo nel vecchio. Si tratta di una forma mentis che, nel nostro Paese, ha solide e antiche tradizioni. E’, credo, nell’animo italiano volere puramente e semplicemente tutto: l’aureola del martire rivoluzionario e i vantaggi di chi è inserito nel sistema. La domanda che ognuno di noi dovrebbe fare a se stesso è - ben più del famoso, leninista “che fare?” - “cosa sono disposto a rischiare, per un mondo più giusto?”. Con avviso peraltro, sul punto, che mai bisogna dimenticare le parole di Bobbio: “Quando la speranza è cieca, e non ha altro fondamento che la propria insoddisfazione del mondo, il desiderio spasmodico di un altro mondo tutto diverso e mai visto prima d’ora, finalmente libero e giusto e benedetto e riscattato dalla violenza sovvertitrice, esso altro non è che la maschera della disperazione”. Insomma, come dire?, “adelante Pedro, ma con iudicio”.

Vorrei sul punto essere estremamente chiaro. Non si tratta di essere “radicali” o “integralisti”. Si tratta di essere consapevoli che gli obiettivi perseguiti da un gruppo certe volte possono essere oggetto di mediazione, altre volte no. Così, per fare un esempio, se l’obiettivo è quello di rendere la navigazione più agevole, può avvenire una mediazione tra gli ipotetici naviganti che abbiano sul punto disparità di vedute. Ma se alcuni decidono di abbandonare la nave e altri, al contrario, reputano opportuno rimanere, la mediazione sarà praticamente impossibile. Si potrà certo “mediare” sul quomodo e sul quando, ma non sull’an.

Sarà bene precisare, per essere chiari fino in fondo, che non si tratta di buttare a mare le “correnti” quasi si trattasse di cose in sé immonde. Il discorso è tutt’altro. Le “correnti”, come tutti i gruppi organizzati, sono necessari e “preziosi”: senza di essi mancherebbe ogni dibattito e non si potrebbe convogliare il consenso. Il problema, per quanto concerne l’A.N.M., è che a) gli apparati hanno preso il sopravvento su tutto e su tutti; b) si parla d’“altro” perché è questo “altro” che disegna i confini tra le correnti, il loro spessore in termini di potere e, in definitiva, gli apparati stessi. Il cane, insomma, si morde la coda: una serie di temi e di problematiche hanno disegnato la mappa delle correnti (ed i loro apparati) e, pertanto, né le correnti né gli apparati hanno interesse a cambiare musica. Se, per fare un esempio, il tema oggetto del dibattito associativo fosse costituito, in assurda ipotesi, dallo scegliere se tenere a casa un cane o un gatto, la geografia correntizia ne rimarrebbe sconvolta.

Il “trucco” (magari inconsapevole) è costituito spesso dalla scelta di temi squisitamente tecnici (con l’alibi che essi, non di rado, sono imposti dai tempi). I temi tecnici sono una vera manna dal cielo: essi ben possono dividere gli appartenenti ad una stessa corrente, senza peraltro essere in contrasto con la “ragione sociale”; hanno, spesso, notevole spessore e brillano di attualità: insomma fanno sentire tutti à la page e impegnati, lasciando le cose (correntiziamente) tali e quali.

3. Il ( si spera) bel tempo che sarà.

Se ci aspettiamo grandi novità dal fatto che gli eletti al CSM sapranno “(…) dare riscontro al grande bisogno, fortemente e generalmente avvertito, di un Buon Autogoverno”, possiamo dare per scontato che nulla cambierà. Forse che molti, in passato, non si sono straimpegnati in tal senso? Cosa è cambiato nel sistema? Un bel nulla. Anzi, se mai, la situazione è peggiorata. E, già che ci siamo, diciamo che non consta affatto che i magistrati tutti siano assetati di pulizia e di lavoro, visto come votano, chi votano e perché votano chi votano. Se siamo convinti che il “sistema” non sia rattoppabile, occorre individuare i piloni che lo tengono in piedi: occorre, detto fuori dai denti, minarli. Altro che alleanzucce e ambizioncelle di serie B: occorre volare alto, osare, costruire il futuro dei giovani magistrati perché possano vivere una professione migliore in uno Stato migliore. Occorre finalmente fare politica, quella con la p maiuscola.

Se l’impostazione che ho brevemente tratteggiato è esatta, occorre trarne le conseguenze. Quali, per intenderci, i “pilastri” del sistema da minare?

Potere di candidatura.

E’ il nodo centrale del sistema A.N.M.-C.S.M. Il pactum sceleris che si consuma continuamente corre lungo la seguente logica: io ti mando al C.S.M. e tu sarai lì il mio ombrello protettivo. Chi decide? L’apparato di corrente. A chi deve essere grato il componente eletto? All’apparato. Chi gestisce il C.S.M.? Le correnti per il mezzo della “disciplina di corrente”. Come si acquista il consenso elettorale? Pagando le cambiali che gli elettori-clientes mettono all’incasso. Ma, si dirà, non tutti sono così. Verissimo, non sono così tutti, ma solo la stragrande maggioranza: quella maggioranza che tiene in vita (e sempre terrà) le perversioni del sistema. Siamo sicuri che l’unico rimedio sia quello di dire che noi ci dissociamo da siffatte perversioni? Non dovremmo forse sottrarre alle perversioni l’acqua “sistemica” nella quale nuotano?

Chi vive all’interno di un “sistema” che tutto sommato lo privilegia, tende ad adagiarsi, a “non vedere”, a giustificare la status quo, a prendere le distanze dalla proprie oggettive responsabilità, a bollare come “non equilibrate” tutte le iniziative forti. La domanda non è solo “cosa posso fare?”, ma anche (soprattutto?) “cosa sono disposto a rischiare?”

Il sistema ci “acceca” e ci rende egoisti. Dobbiamo invece aprire gli occhi. Non si può ulteriormente assistere rassegnati allo spettacolo di una giustizia penale che uccide i miserabili, consegnando ad un’impunità strutturale i ricchi, i potenti e i grandi malavitosi; non si può ulteriormente assistere rassegnati allo spettacolo di una giustizia civile i cui tempi, dilatati fino all’irragionevole, rendono mero flatus vocis il termine “diritto”, soprattutto in tempi di privatizzazioni, di cartelli imprenditoriali e, per dirlo in termini semplici, di grandi alleanze del capitale. Non ci si può rassegnare al fatto di essere rappresentati da un C.S.M. che - nel mentre si propone come alto senso istituzionale e si pone come vestale del sacro fuoco della legalità (che altro non è che rispetto delle regole) - lascia imperare al suo interno il gioco delle tre carte.

Non si tratta di reagire come magistrati: si tratta, prima ancora, di reagire come uomini. Un impegno “politico” presuppone questa ferma determinazione. Il resto è robetta per avere la coscienza tranquilla; per raccontarsi la favola del proprio “impegno”. Non serve a nulla e, ad una certa età, francamente, non dovrebbe interessare più di tanto.

4. “Il mio sogno vi sveglierà” (Magritte).

Prima di spiegare compiutamente il senso di un’iniziativa, intendo affrontare l’addebito che ci viene mosso da molti critici: essere il nostro un sogno utopico destinato a esaurirsi, sterilmente, senza apportare alcun aiuto a chi lodevolmente cerca di far funzionare la baracca.

Anche noi – come tanti – vogliamo far funzionare la baracca. Ma, contrariamente alla maggioranza, crediamo che occorra un cambiamento forte, il quale, per essere tale non può essere indolore. Crediamo che la situazione sia gravissima, ma non irreversibile. Siamo convinti che occorra far nostre le parole di De Toqueville: “Cerchiamo di avere dunque del futuro questo timore salutare che fa vegliare e combattere, e non quella sorta di terrore fiacco e improduttivo che abbatte i cuori e snerva”.

In tutto ciò c’è - è vero - una componente utopica, ma non nel senso che i critici danno a questa parola. Non siamo dei visionari, non vogliamo costruire un mondo tutto bello e tutto puro che non può esistere. Sappiamo bene che la perfezione non è di questo mondo. Il nostro mondo non è un mondo sognato, ma questo mondo, imperfetto, ma vivibile. Dove dunque la nostra utopia? Nel non accettare che l’esistente non possa essere migliorato, nel non ritenere ineluttabile ciò che ineluttabile non è; nel rendere ossequio ai tanti utopisti del nostro tempo: agli Ambrosoli, ai Falcone, ai Borsellino, i quali furono grandi, nella loro utopia, perché in una patria smarrita non si smarrirono; non invocarono alibi per giustificare la fuga dal “dovere”, un dovere cui resero ossequio non in forza di un risultato ritenuto sicuro, ma per realizzazione compiutamente ciò che un uomo è chiamato a essere. Vorremmo tanto che l’ANM tornasse ad essere la compiuta realizzazione di ciò che un magistrato è chiamato a essere. Non ce ne staremo perciò con la testa tra le nuvole e i piedi sollevati da terra, ma, al contrario, terremo i piedi ben piantati nel terreno e guarderemo in faccia la realtà, cercando di far vivere in essa i nostri ideali, perché un’ideale che non si invera nella realtà è poco meno di un sogno.

5. Guardare in faccia la realtà.

La nostra iniziativa non prende dunque le mosse da sogni, ma dalla realtà che abbiamo davanti agli occhi: un quadro realissimo costituito dalla gravissima crisi sia del C.S.M. che dell’A.N.M., il cui corretto funzionamento costituisce pilastro e presidio irrinunciabile dell’indipendenza, efficienza e affidabilità della magistratura.

Siamo convinti che questa crisi sia determinata - detto in estrema sintesi - dal fatto che l’idealità originaria si sia rapidamente mutata (e pervertita) in logica dell’appartenenza. Nessuna obiezione è stata mossa a questa diagnosi: tutti concordano sullo stato comatoso della giustizia; sulla complessiva, crescente inaffidabilità della magistratura; sull’assenza di adeguati controlli dei livelli di professionalità e di correttezza deontologica; sul pietoso stato dell’applicazione dei criteri dal parte del C.S.M., soprattutto con riferimento alla nomina di uffici direttivi e semidirettivi; sull’inconsistenza dell’A.N.M. come forza critica forte e stimolo al C.S.M. per la reale affermazione dei principi di indipendenza, correttezza ed efficienza della giurisdizione.

Dunque siamo tutti d’accordo sul fatto di essere in presenza di uno stato di malattia grave - per non dire disperato - che richiede cure radicali e non pannicelli caldi. Quale la causa della malattia? La risposta a siffatto quesito è stata anch’essa unanime: l’originaria idealità delle correnti è rimasta soffocata dalla logica dell’appartenenza secondo cui il voto altro non è che adesione a un gruppo protettivo. Tutti i valori, tutte le azioni, tutti i discorsi sono oggi falsati da siffatta perversa logica, la quale (forse) ha finito per dar vita a un regime. Proverò, brevemente, a ragionare a voce alta su questa parola che viene impiegata anche con riferimento al nostro assetto socio-politico generale.

Direi, in prima approssimazione, che “regime” è quell’assetto in cui il potere rende sì ossequio ai principi formali della democrazia (in ciò distinguendosi dalla dittatura), ma adotta una serie di accorgimenti che rendono meramente teorica la possibilità di perdere il potere. Insomma il regime è, per un pessimista, una dittatura incompiuta; per un ottimista invece è una democrazia imperfetta: questione, come sempre, di punti di vista. Pur atteggiandosi in modi assai diversi tra loro, i regimi hanno tratti comuni che mi azzardo a individuare.

Il primo tratto caratteristico di un regime è la forte distanza tra realtà e facciata: la trasparenza è la prima arma della democrazia, la menzogna manipolativa lo strumento principe dei regimi.

Corollario: nelle scelte di regime la “motivazione” dichiarata diverge spessissimo dalla motivazione reale.

In secondo luogo la democrazia fa propria una cultura improntata al bene comune; il regime, invece, distorce e diffonde pratiche per dir così “corruttrici”, tali cioè da saldare gli interessi particolari dei singoli con gli interessi di coloro che sono a capo del regime. In tal modo detti interessi particolari - che simul stant simul cadunt con gli interessi facenti capo agli oligarchi del regime - divengono uno dei punti di forza del regime.

In terzo luogo il regime è nemico di una diffusa partecipazione. La c.d. “base” ben può essere chiamata a raccolta (per essere manipolata), ma alle decisione reali presiede una ben individuata oligarchia: la democrazia spinge verso la partecipazione generalizzata, il regime verso gli “apparati”.

In quarto luogo la democrazia è ricambio, là dove tutti i regimi tendono a cristallizzare gli assetti di potere o al più dar vita a una sorta di gioco dei quattro cantoni ove gli oligarchi si scambiano le poltrone, così mantenendo nella sostanza immutato il loro potere personale.

In quinto luogo il regime riduce la democrazia all’esercizio del voto (un voto peraltro spesso “imbastardito” da controlli e interferenze indebiti). Ovviamente i candidati sono scelti dagli oligarchi.

La democrazia alimenta gli entusiasmi, suscita speranze di miglioramento, accende l’inventiva, individua problemi ed escogita soluzioni, promuove la pari dignità dei cittadini e la tutela del bene comune. Il regime si nutre di liturgie autocelebrative, ignora i problemi reali, è rigido nel trovare soluzioni, spinge verso la rassegnazione, coltiva nel seno la “casta” di quelli che contano, alimenta negli individui il gretto perseguimento del proprio interesse “particolare”, giustificato con un pessimismo qualunquista che travolge ogni valore.

La domanda che ho posto all’inizio attende una risposta che non può essere solo mia: ciascuno è chiamato a rispondere dopo attenta meditazione (la democrazia è anche diffusa riflessione sui problemi comuni). Se mai la risposta dovesse essere affermativa, ci troveremmo di fronte a un fatto grave, essendo indubbio che poteri incidenti sull’esercizio della giurisdizione non possono essere esercitati nell’interesse di pochi.

6. Riforma o rivoluzione?

Per cambiare la situazione occorre porre in essere un’azione che risulti incommensurabile con la logica sopra indicata: in caso contrario, se cioè tutti disciplinatamente ripeteremo i copioni già visti, se il “prima” sarà quello di sempre, anche il “dopo” (vale a dire il futuro agire del C.D.C. e del C.S.M.) sarà quello di sempre: un’esperienza trentennale sta lì a dimostrare la verità di siffatta affermazione.

Nel marzo 1989, nel dar vita al movimento che si chiamò Proposta ’88 (e che, successivamente, unitosi ai c.d. Verdi, diede vita al Movimento per la Giustizia), organizzai un incontro (dal titolo “Riforme o rivoluzione?”) nel corso del quale affermavo: “Occorre guardare in faccia la realtà, senza tabù (o meglio con l’unico tabù della Carta costituzionale) e dire con chiarezza che anche il C.S.M. è affetto dal male del secolo: l’occupazione, più o meno forte, dell’istituzione da parte dei gruppi organizzati. Il male è sotto gli occhi di tutti ed è proprio il caso di dire “chi è senza peccato scagli la prima pietra”. La forza intrusiva dei vari gruppi ha dato vita a meccanismi che hanno avuto la conseguenza di rendere deboli e non credibili le istituzioni, cagionevole la democrazia. (...) Non è possibile affrontare questa situazione con italici pannicelli caldi, occorre invece avere la forza e il coraggio di proporre riforme forti che siano in linea con la Costituzione”. E qualche tempo dopo affermavo: “Non si può essere minoranza innovatrice senza essere in qualche modo incompatibile con il sistema. Minori attacchi avremo, più saremo considerati “ragionevoli”, più vorrà dire che saremo divenuti omogenei al sistema. Dobbiamo scegliere tra un’accusa di “irragionevolezza” e una morte certa per conglobamento nelle perverse logiche dell’associazionismo degenerato”.

Se ricordo qui alcune iniziative passate non è certo per menarne vanto o reclamare capacità profetiche: è semplicemente per fare comprendere che è ampiamente scaduto il termine entro il quale era lecito sperare che fosse possibile tentare di cambiare con tenacia le cose “dal di dentro”. Venti anni di inutili tentativi dimostrano che insistere sarebbe oggi manifestazione non già di tenacia, ma di ostinazione: su questo punto occorre essere chiari e fermi.

I nostri critici infatti affermano di concordare sulla diagnosi, ma non sulla terapia. Quando dalla diagnosi si passa alla terapia, le loro posizioni si divaricano infatti vistosamente dalle nostre, senza, credo, che sussistano spazi di possibile mediazione, dato che non viene avanzata, in alternativa, nessuna proposta che abbia il carattere (assolutamente irrinunciabile) di rottura del sistema.

Perché la nostra proposta è di rottura? Perché auspica la diserzione dal luogo ove il potere degli apparati si salda con il principio di appartenenza: l’appuntamento elettorale.

A fronte di questa proposta dirompente vengono suggeriti blandi medicamenti che – già sperimentati in passato – non hanno determinato alcun miglioramento. Ci si vorrà infatti concedere che in venti anni di pratica “movimentista” più volte si siano individuati punti programmatici essenziali e indefettibili; infinite volte si siano messi questi punti programmatici nero su bianco; ad ogni elezione si siano candidate e votate persone ritenute, per generale acclamazione, idonee a realizzare i detti programmi. Ci si vorrà anche concedere che abbiamo già provato a praticare forme di aggregazione (elettorale e non) che potessero rompere gli schemi correntizi. I risultati sono sotto gli occhi di tutti e non hanno bisogno di essere commentati.

7. Che fare?

E’ dunque ora che la c.d. base mandi un fortissimo segno di discontinuità; un segno che - si badi bene - non abbia in sé i germi di quella malattia che ha corrotto l’agire dell’A.N.M. e del C.S.M.: l’ “appartenenza”. Chi aderisce all’iniziativa non appartiene a nulla né si impegna ad appartenere: non crea un nuovo gruppo, non crea candidature né aspettative di qualsiasi tipo. Vuole solo chiedere un cambiamento forte, anzi fortissimo. Vuole distruggere il criterio di appartenenza nel suo momento iniziale. Vuole dimostrare che si può contare - si deve contare - senza appartenere (è per questo, infatti, che all’iniziativa da noi proposta può aderire sia chi “appartiene” a qualche corrente sia chi non “appartiene a nessuno”).

Chi aderisce contesta che l’A.N.M. abbia svolto un ruolo, concreto e incisivo, nella difesa della indipendenza (interna e esterna), della correttezza, dell’efficienza della magistratura, stimolando e criticando anche il C.S.M..

Pertanto – senza vincolo di “appartenenza” e senza impegno per il futuro – coloro che aderiscono all’iniziativa

1) riconoscono che l’attuale situazione è insostenibile e che è necessario un segno forte di discontinuità;

2) si impegnano a disertare il voto per l’elezione del C.D.C. come forma di impegno civile a favore di un rinnovamento delle prassi associative;

3) si riservano di indire, in coincidenza con i giorni fissati per l’elezione del C.D.C., manifestazioni che denunzino il degrado della giustizia;

4) si riservano di coinvolgere in detta manifestazione tutti quegli operatori della giustizia che attivamente contribuiscono al funzionamento della macchina giudiziaria.

La nostra protesta, se intende combattere la logica del sistema attuale, non per questo configura i mezzi di protesta usati come strumenti sempre e comunque salvifici, che, in quanto tali, siano da perpetuare nel tempo sempre e comunque. I mezzi da noi scelti ci appaiono idonei oggi a combattere il virus dell’ “appartenenza”: domani si vedrà. Oggi appare necessario contrapporre alle usuali liturgie elettorali un diverso modo di essere “associati”.

Questo diverso modo di essere è, nelle nostre intenzioni, un disarticolare il momento elettorale, sì che esso - deprivato del significato di “appartenenza” – divenga non già il luogo ove si giura fedeltà, ma espressione di una forte contestazione mossa da una “rete”.

8. Appartenenza e rete.

L’“appartenenza” implica una struttura preesistente che predetermina e predefinisce “le norme che regolano la condotta, i comportamenti e i principi di interazione di tutti gli individui che ricadono nel suo ambito”. L’appartenenza facilmente degenera in logica di mero potere e - quel che è peggio – “acceca in maniera radicale e pericolosissima perché impedisce non di criticare, ma di vedere quali siano le cose da criticare”.

La “rete” “non necessita e non rivendica una storia precedente e le sue basi non le cerca nel passato, ma nel presente”. Le reti nascono nel corso dell’azione e durano il durare dell’azione. La rete non nobilita l’oggi in nome del passato, ma agisce oggi, hic et nunc. La rete non si orpella di luoghi celebrativi, non uccide le critiche accusandole di sacrilegio, non si esaurisce in vuote e ripetitive liturgie: mira al fine comune e si dissolve o si riorganizza diversamente in vista del nuovo fine. L’appartenenza è rigida e accetta la realtà solo in quanto è compatibile con gli schemi che hanno determinato l’appartenenza stessa; ha difficoltà nell’affrontare il nuovo; è chiusa su se stessa. La rete è flessibile, si adegua alle nuove realtà, si apre ai bisogni sociali nuovi, abbandona senza rimpianto ciò che è desueto.

Una contestazione così effettuata è - nel suo essere disomogenea al sistema – inaccettabile per quest’ultimo. Il sistema pre-vede che possano essere fatte ottime (e sincere) promesse elettorali; che possa essere candidato un bravo e valente collega. Nel pre-vedere le mosse, il sistema contrappone a ogni mossa adeguata contromossa: esso può permanere - in quanto essere sistema e in quanto essere “un dato sistema” - malgrado le mosse programmatiche o le candidature “scomode”. Ma non può permanere se una consistente “defezione elettorale” minacci altre più vaste azioni e defezioni che - mirate su obiettivi di volta in volta adeguatamente individuati - minino ulteriormente il sistema fino a corrodere, da ultimo, il suo pilastro fondamentale: il sistema elettorale vigente (ogni sistema coincide in gran parte e principalmente con il suo sistema elettorale).

9. Fecondità dell’astensione.

Molti colleghi hanno manifestato una certa perplessità, sembrando loro che un atteggiamento meramente “passivo” potesse, alla fine, risultante perdente nei confronti di un comportamento più partecipativo.

L’obiezione non solo non è peregrina, ma, al contrario, è molto seria e dunque doverosamente mi sono fatto carico di approfondire la questione.

E se mi sbagliassi? Così, più volte, sono andato interrogandomi, perché se mai c’è una cosa che non vorrei fare è coinvolgere valenti colleghi in una mera vampata emozionale. Ho preso dunque molto sul serio le critiche mossemi e mi sono “messo alla sequela”: ho cioè sviluppato il nocciolo propositivo in esse implicitamente (o esplicitamente) contenuto. Ok, mi sono detto, la situazione è ormai intollerabile e occorre una svolta: in questo non credo di sbagliare visto che la svolta la invocano tutti. Per “svoltare” occorre diffondere cultura e prassi idonee; bisogna riflettere criticamente sul sistema che abbiamo creato, meditare sulle prassi scorrette, o addirittura illegali, radicatesi nel C.S.M.; si deve analizzare il trasformarsi dei valori sposati dalle correnti in stracche e vuote liturgie; vanno create aspettative di inversioni di rotta, suscitati entusiasmi e - perché no? – ingenerata un po’ di apprensione in chi vuole che tutto rimanga tale e quale.

Per fare tutto ciò - in astratta ipotesi – si può:

A) fare esattamente quello che (a fin di bene) si è fatto negli ultimi venti anni. Invito tutti coloro che si sono impegnati in questi anni nel senso indicato ad alzare una mano se ritengono che il sistema sia cambiato in meglio, specificando in cosa si sostanzi siffatto miglioramento. Io, in tutta coscienza, non mi sento di alzare alcuna mano (neppure mi sento di acquietarmi l’animo per il fatto che l’impegno ha impedito che le cose “andassero peggio”: non mi basta perché l’assunto, in primis, è da dimostrare e, in secundis, è troppo comodo. Nessun medico infatti – di fronte a un decorso letale della malattia – può seguitare a somministrare una medicina che si è dimostrata impotente, dicendo “è pur sempre una medicina che ti ha impedito di morire due o tre anni fa”: un medico degno di questo nome cerca un rimedio che salva la vita);

B) fare - rispettando le regole del sistema - qualcosa di diverso dal passato, avente carattere di “rottura”. Mi sono scervellato, ma questo qualcosa non l’ho trovato. Del resto quale avrebbe potuto essere? Un bel programma? Una candidatura “salvifica”? Una qualche incompatibilità con effetto placebo? In che cosa gli apparati si sentirebbero sentiti a rischio? Cosa ci sarebbe da dibattere e da sperare? Non ne abbiamo fatti a bizzeffe, in passato, di bei programmi? Pensateci bene, carissimi amici critici: quale proposta avrei potuto fare, tale da produrre il bailamme generato dalla sola proposta di astensione, le speranze che essa sta suscitando, gli allarmi che vanno prendendo piede?;

C) fare qualcosa che - per essere disomogeneo al sistema - colpisca il potere nell’unico punto in cui è vulnerabile: nel suo carburante ovvero, per parlare fuori di metafora, nel voto.

Sono giunto alla conclusione che l’astensione - molto più che essere uno mero strumento-idoneo-al fine (fungibile con altri strumenti analoghi) - è il volto necessario (e dunque infungibile) di chi - apparendo (sconsolatamente) destinato ad essere minoranza (perdente) a vita - si interroghi su quali possano essere gli strumenti per “contare”. Sperando di non essere considerato un testardo, passo a dare conto di siffatta affermazione.

Parto dall’evidente necessità - a fronte del collasso del sistema-giustizia - di compiere qualcosa che concretamente produca bene, come si propongono tutti i bene-intenzionati: un qualcosa che non abbia solo valenza di nobile ma sterile protesta. Insomma, venendo al quesito di fondo, è possibile “cambiare il mondo senza prendere il potere”?

Ho rifatto le bucce a me stesso e - mi scuserete la pervicacia – sono giunto alla conclusione che il non-voto, quale rifiuto di condividere il potere, è molto più che una protesta, un porre sul tappeto una questione di fondo: l’organizzazione dell’associazionismo. I valori di civiltà insiti nella giurisdizione - a sentire gli attivisti dell’A.N.M. – sembra possano essere tutelati solo militando in una “corrente” (o simili). Esistono invece altre forme - esse pure collettive - altrettanto incisive di quelle note. Una è quella di promuovere un movimento paritario che rifiuti di considerare “bene” ciò che piove dall’alto, ma voglia proporre innanzitutto il “bene” che sorge dal basso. Non cerchiamo di distruggere gli apparati per proporre, al loro posto, il nostro “bene”, ma lo proponiamo hic et nunc per ciò solo che rifiutiamo le regole degli apparati. Un percorso - il nostro - che per sua natura non può essere irreggimentato nelle forme usuali (ché in tal caso approderebbe inevitabilmente al “già visto”), ma, come un fiume che scorre fuori dell’alveo usuale, rischia sì di arenarsi, ma con ciò paga il prezzo dovuto al nuovo, all’inventiva, al libero esercizio della critica, all’azione che sia autenticamente frutto di impegno corale e non agire di un’élitte (oligarchia?) che si arroghi il diritto di parlare per tutti. Le decisioni “in nome della gente” non sono affatto una garanzia e la quotidianità sta lì a dimostrarlo.

Un “movimento” che voglia minare mali antichi e incancreniti non può essere “moderato”: deve chiamare i fatti con il loro nome e cognome, senza edulcorare e senza mediare. Non che la politica debba essere solo “movimento”, ma essa ha bisogno (anche) di “movimento” se non vuole scadere a stracca ripetizione di slogans dietro cui nascondere interessi affatto particolari, per non dire egoistici. Noi non ci limitiamo a rifiutare di votare oggi per condividere questo potere, ma poniamo sul tavolo un quesito di ben più vasta portata: è più importante (e coerente) marciare verso la presa del potere o verso la crescita della nostra influenza sul potere (quello di oggi o di domani, poco importa)?

Il rifiuto di votare è dunque l’affermazione di un nuovo modo di fare politica: un “muoversi contro-e-oltre" che, per sua natura, è anti-istituzionale (nel senso, sia chiaro, che ripudia di cristallizzarsi in forme date) e si muove continuamente “oltre ogni cosa che possa contenere o fermare il flusso creativo della ribellione”. E’ per questo, soprattutto, che non abbiamo un programma: perchè il nostro “programma” è di criticare – continuamente e spietatamente – i programmi fatti dall’ “istituzione”.

Dunque la nostra posizione, se pur assume le fattezze di un “no”, è assai feconda e per nulla improduttiva. Il “no” infatti è dirompente perché contesta che ci sia necessaria continuità nelle forme di difesa dei valori della costituzione ( e dunque prospetta come non necessarie le “correnti”); il “no” non è digeribile da parte degli apparati, in quanto sfugge alle regole della loro organizzazione del potere e anzi, al contrario, postula forme organizzative affatto diverse; il “no” non imita le forme in cui si esercita il potere attuale, ma costituisce epifania di uno spostamento radicale del potere: dalla sede istituzionalizzata a quella della dialettica, della partecipazione diffusa, del confronto reale e paritario. Il “no” apre un nuovo mondo concettuale, apre crepe negli assetti del potere esistente (e dunque spazi autonomi), si muove, sperimenta e crea. Ma c’è di più.

Il “no” non si preoccupa di creare nel sistema le condizioni per il superamento del sistema (rimanendovi dentro fino al detto superamento): il “no” è la rivoluzione adesso: come è stato detto, la finalità non è costruire una forza all’interno del sistema che poi (quando?) produrrà una “rivoluzione”, ma dar vita a una forza dirompente che spinga oltre-e-contro adesso. Siamo dunque, a ben vedere, nel cuore della critica (talora implicita) che ci viene mossa secondo cui la pretesa di cambiare lo stato delle cose senza prendere il potere (il potere di questo sistema, in questo sistema, con gli strumenti di questo sistema) sia del tutto irreale. Credo, al contrario, che la pratica del “no” - per gli effetti che le conseguono – sia il massimo di ciò che oggi, hic et nunc, sia realisticamente praticabile a voler cambiare le cose. Non trovo di meglio, per chiarire il mio pensiero, che rubare le parole a J. Holloway (con avviso che il suo pensiero si radica e si muove in tutt’altro contesto): “Non si tratta di definire questi no, di concentrarli in un partito o in un movimento, ma di aiutarli a rompere le definizioni, a svilupparsi, a estendersi e moltiplicarsi. Non stiamo vivendo in una casa solida e resistente. Viviamo in un edificio vecchio, decrepito, pericoloso e pieno di crepe nascoste da cartelloni pubblicitari: dobbiamo fare di tutto per scoprirle e farle estendere, moltiplicare e unire, qui e ora, fino a far crollare l’edificio”.

Come ebbe a dire un “rivoluzionario” del nostro tempo, “siamo donne e uomini e anziani abbastanza normali, cioè ribelli, scontenti, scomodi, sognatori”. Credo che tutti i magistrati “abbastanza normali” siano, al fondo, ribelli, scontenti, scomodi, sognatori: si tratta di fare emergere questa loro natura che il sistema cerca in tutti i modi di reprimere e nascondere.

Il sistema sembra sappia sempre dove andare, propaganda questa sua sicurezza e cerca di spacciare anche gli insuccessi più evidenti come sue conquiste. Noi, “rivoluzionari”, non pretendiamo di sapere sin d’ora, di qui sino alla consumazione dei secoli, il da-farsi: sappiamo però benissimo ciò che non va ora e vogliamo dire in libertà i nostri “no” (soprattutto quelli che nessuno dice). Non ci interessa (come interessa al sistema) celebrare il passato, perché la storia narrata dagli apparati è pervasa dalle categorie utili al sistema: è una storia solo di grandi imprese e grandi uomini. La storia, in sé così bella, può tramutarsi in un grande alibi e in un’ottima scusa per non pensare al presente. Non ci interessa precorrere il futuro perché ancora non sappiamo quali forme prenderà. Ci interessa il presente, quello che può essere vulnerato dai nostri “no”.

Con avviso (essenziale) che uno spirito in tanto è “rivoluzionario” in quanto vuole stravolgere il sistema eliminando ciò che lo appesantisce e lo perverte. Non dunque, sic et simpliciter, una battaglia contro questo sistema, ma più precisamente contro la gravissime disfunzioni che lo permeano. La puntualizzazione è d’obbligo, al fine di evidenziare come nessuna contraddizione di principio ci sia tra chi tali disfunzioni vuol combattere nelle correnti e chi, invece, fuori. Neppure c’è contraddittorietà in chi decide di assumere, come dire?, una doppia cittadinanza, essendo compatibile, sempre in linea di principio, un doppio impegno.

Dunque, concludendo, non mi sentirò, non andando a votare, un disilluso che ha dismesso le armi, appendendo al chiodo la spada e le speranze. Mi sentirò nel bel mezzo della battaglia, armato di bei “no”, in movimento verso fuori, percorrendo strade che meglio si delineeranno cammin facendo, confortato dalle mie utopiche aspirazioni, ma sorretto dal contributo di pensiero di tanti. Camminare su una strada male illuminata – lo so – può essere pericoloso, ma è certo meglio e più sicuro che camminare su una bella strada illuminata che non porta da nessuna parte o, peggio, conduce diritta diritta nel precipizio.

10. La nostra “progettualità”.

Chiederci cosa vogliamo fare “dopo” è trattarci da “corrente”: considerarci cioè come uno dei soggetti che concorrono a esercitare il potere in questo sistema. Ora si dà il caso che l’esercizio del potere è cosa che sta a valle del problema che noi poniamo: quello del ripristino delle condizioni minime perché detto esercizio possa dirsi non arbitrario ancorché discrezionale; aperto al bene comune e non avviluppato su se stesso; espressione di un assetto genuinamente democratico e non di un’oligarchia.

Il messaggio che mandiamo è preciso: se non si ripristinano le condizioni minime, cercheremo non solo di far mancare il carburante, ma di sabotare l’oleodotto (leggi : legge elettorale per il C.S.M.). Non ci interessa ora parlare di trasferimenti, sezione disciplinare, direttivi, etc. perché sappiamo che, purtroppo, ogni progetto (come ha benissimo detto la collega Barbagallo) rimarrà lettera morta (forse che in passato non è stato così?). Dunque l’intenzione è di mandare una richiesta forte, non già di “arruolare” su una progettualità: vogliamo fornire un’occasione a tutti coloro che - quale che siano le progettualità che coltivano in pectore – sono determinati a dire basta. La nostra è dunque una “progettualità” tra virgolette che vuole ribaltare un sistema, dato che, dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur: mentre parliamo cioè, continuano ad accadere nel C.S.M. cose “scellerate” e il “Palazzo” seguita a fare il suo mestiere perché, come lo scorpione della favola, è questa la sua natura. Se il nostro “basta” produrrà effetti, torneremo a fare progettualità senza virgolette; a interrogarci sulle vie che, nel nuovo sistema, dette progettualità debbono percorrere perché non abbia a ripetersi il passato. In caso contrario, diremo “basta” a voce sempre più alta, dato che, come è noto, l’inventiva dei movimenti è assai più fervida di quella degli assetti istituzionalizzati (nel nostro caso: le correnti).

Finché non sarà avvenuta l’auspicata “svolta”, chiederci cosa vogliamo fare è come chiedere a chi sta spegnendo un incendio come arrederà la casa. Già, perché lo si potrebbe infatti interrogare così: “A che pro spegni l’incendio, se non sai quale uso fare della casa?” Credo che la risposta dell’“incendiato” (e anche la mia) non potrebbe che suonare così: “Dimmi piuttosto che te ne fai tu del tuo progetto di arredamento,dei quadri che intendi acquistare e della cucina componibile. Non vedi che la tua casa sta bruciando (a proposito, tante volte nessuno se ne fosse accorto: i processi civili durano mille anni, la sanzione penale è una chimera ed è entrato in vigore un pessimo ordinamento giudiziario) e che quando tutto sarà cenere non sarà possibile nessun programma?”.

11. Alcune considerazioni finali tanto per essere ancora più chiari.

Le argomentazioni sopra svolte dovrebbero rendere chiaramente il mio pensiero. Metto qui, per desiderio di maggiore chiarezza, alcune ulteriori considerazioni esplicative.

La prima cosa che mi preme sottolineare è che non mi è venuto mai in testa di essere il solo a desiderare - sinceramente e fermamente - che le prassi associative mutino radicalmente e si depurino. So bene – e la cosa mi scalda il cuore – che ci sono tanti eccellenti colleghi, militanti in questa o quella corrente, che con animo sincero si adoperano perché l’auspicato cambiamento si verifichi. Anche io del resto, per anni e non per giorni, ho cercato, per quel che potevo, di contribuire, dal di dentro, a un cambiamento forte del sistema. Chiameremo tutti coloro che desiderano sinceramente un cambiamento della situazione i “bene intenzionati” (lo dico senza alcuna ironia, per distinguerli da coloro che, in un sistema inefficiente e sbracato, se ne stanno felici come topi in una forma di cacio parmigiano).

Cos’è allora che mi distingue dagli altri bene intenzionati? Mi distingue né più né meno che una diversa valutazione del sistema in atto e non certo un maggiore spessore di impegno civile.

Necessita una ulteriore premessa generale. Non esistono sistemi perfetti e ciò che funziona qui può non funzionare lì; può funzionare oggi e non funzionare domani. Dunque dire che oggi il sistema non funziona non significa affermare che il sistema non ha mai funzionato ed è da sempre perverso: vuol dire solo che oggi, hic et nunc, il sistema si è pervertito. Non c’è da meravigliarsi se un sistema funzionante in allora (in un contesto fortemente carico di ideali), non funzioni più ai nostri giorni. Quel che è certo è che sull’attuale non-funzionamento i bene intenzionati sono tutti d’accordo,

La divaricazione (all’interno dei bene intenzionati) sta dunque in ciò: c’è chi penso che il sistema sia caduto in potere degli apparati di corrente i quali si servono della legge elettorale vigente (per il C.S.M.) per applicare spietatamente la legge dell’appartenenza. Pensa anche che in questo contesto l’A.N.M. sia disarmata (sul tema ritornerò di qui a poco) e che elezioni (anche quelle per l’A.N.M.) valgano come pubblica dichiarazione di appartenenza (la quale ovviamente ha effetti diversi a seconda delle varie correnti. Ma anche su ciò tornerò qui appresso). Da queste convinzioni si trae la conclusione che - per cambiare veramente le cose - occorra un vero capovolgimento e non - come sostengono, in perfetta buona fede, altri bene intenzionati - una corrosione progressiva dei consensi attribuiti ai male intenzionati. Del resto non si può negare che siffatta corrosione non è avvenuta negli ultimi venti anni e dunque sembra lecito affermare che essa mai avverrà. Perché?

Per il semplicissimo fatto che la moneta cattiva scaccia la buona; che la “corruzione” (in senso etico, non penale) per sua natura si diffonde; perché per due “buoni” arruolati qui, là vengono arruolati dieci “cattivi”; perché in un sistema pervertito mentre i “cattivi” imperversano e prosperano, i “buoni” hanno vita dura, anzi durissima. E dunque non basta, per tacitarsi l’anima (politica), pensare di essere “buoni” perché si proclamano (sinceramente) buone intenzioni e buoni principi. Sono anni che le buone minoranze si vantano di essere tali, ma credo sia venuto il momento di porsi il problema di chiedersi perché esse siano tali a vita. La risposta è semplice: perché questo sistema è tale da perpetuare in eterno il potere delle cattive maggioranze.

Ma - mi si obietta - in momenti così difficili non si può indebolire l’A.N.M.. Replico. A parte il fatto che i tempi sono difficili da trent’anni (prima gli anni di piombo, poi il “nemicissimo” Berlusconi, ora gli “amici” che - si viene a scoprire - tanto amici non sono, etc.etc.), c’è da dire che l’A.N.M. è, purtroppo, una tigre di carta. Le sue armi, tutte puntate verso l’esterno, scontano all’evidenza la mancanza di autorevolezza conseguente al fatto che essa non ha neppure un’armicciattola puntata all’interno. Essa non rappresenta un corpo efficiente, di alto profilo istituzionale, che rende un prezioso servizio come tale avvertito dai cittadini. Essa è chiusa sulle sue logiche e paga un prezzo evidente in termini di peso politico, in atto inconsistente. Una inconsistenza che deriva certamente dall’azione ai fianchi dei nemici esterni, ma anche (soprattutto?) dal fatto che questa azione ha avuto vita facilissima per effetto della latitanza di una efficace azione interna dell’A.N.M.. Qualunque iniziativa tesa a condurre l’agire dell’A.N.M. nella direzione di un salto di qualità sul versante interno, lungi dall’indebolire l’associazionismo, avrà dunque l’effetto di renderlo finalmente robusto perché rappresentativo non solo e non tanto dei magistrati, quanto, soprattutto, dei valori consegnati dai costituenti alla magistratura.

Ma - mi si obietta ancora - la tua critica dipinge la situazione come una notte in cui tutte le vacche (correntizie) sono grigie. Replico: per niente affatto. So distinguere benissimo la seta (bene intenzionata) dalla lana (male intenzionata), ma affermo che la seta si illude grandemente nel credere possibile tramutare tutto in seta se, per fabbricare se stessa, seguiterà a contribuire a un sistema in cui sia possibile (e quanto!) fabbricare contestualmente una quantità maggiore di lana. Nel mantenere in piedi la fabbrica i miei amici bene intenzionati, fabbricanti di seta, si trovano - oggettivamente e sotto il profilo sistemico - alleati dei fabbricanti di lana: a loro dispiace che lo si dica, ma purtroppo è così.

E poiché fabbricare vuol dire elezioni, occorre cominciare a disarticolare il sistema partendo dalle elezioni. Ho detto - si badi bene - “cominciare” e “partendo”: non ho mai detto di non votare, punto e basta. Ho detto che deve cominciare una “resistenza”; che bisogna trovare reali convergenze con altri soggetti operanti in ambito giudiziario; che occorre impegnarsi il doppio; che è necessario dar vita a un governo-ombra e a qualcosa di analogo alle associazioni dei consumatori: un qualcosa cioè che critichi, incalzi, sveli, dissacri: che insomma crei una situazione nuova capace di conferire all’A.N.M. nuova e forte autorevolezza, altro che indebolimento. Occorre rivisitare tutti i tabù, a iniziare dalla legge elettorale per il C.S.M..

Mi si obietta, infine, che ciò che voglio fare io è ben possibile farlo in altro modo: lo si può fare - dicono i miei critici bene intenzionati - con programmi eccelsi, che costituiscano, a un tempo, segno evidente di discontinuità e inizio di una reale rivoluzione copernicana. Io sto qui e aspetto di vedere ciò che non si è mai visto negli ultimi venti anni (ché altrimenti, la rivoluzione si sarebbe già compiuta e non staremmo qui a parlarne). Certo è invece che l’annunziato programma servirà a fabbricare un po’ di seta, mentre altri fabbricheranno quintali di lana. Poi, nel parlamentino dell’A.N.M., si voterà e tutto rimarrà tale e quale. Scommettiamo?

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Le responsabilità dell'A.N.M. nella crisi della giustizia


di Felice Lima
(Giudice del Tribunale di Catania)

La magistratura ha l’autogoverno a tutela della propria indipendenza. Ma, se l’autogoverno, oltre a non garantire l’indipendenza “interna” dei magistrati, non assicura (per quanto dipende dai magistrati) l’efficienza del “servizio giustizia” e anzi diventa un’alibi per coprirne la sempre più grave inefficienza, è inevitabile che la sua difesa divenga sempre più difficile.

Per le ragioni esposte da Stefano Racheli nel suo articolo ”Una riflessione necessaria”, la società è cambiata moltissimo negli ultimi anni (la magistratura, purtroppo, invece no!) e le attuali dinamiche sociali non possono proprio più permettersi una inefficienza del “servizio giustizia” così grave come concretamente oggi è.

E’ dovere morale e civile dei magistrati (ciascuno e tutti insieme) assicurare efficienza al servizio che hanno il dovere di rendere, sia perché per questo stanno al loro posto sia perché questo è l’unico modo per potere ancora rivendicare legittimamente l’autogoverno, che, nella logica della Costituzione, è una guarentigia e non un privilegio.

1. Considerazioni generali

La giustizia in Italia non funziona (non “funziona male”, proprio “non funziona per niente”). E non funziona non per motivi accidentali, per qualche inconveniente del momento, ma proprio per una precisa scelta politica.

Una società nella quale i poteri forti – economico e politico – sono massicciamente fondati sull’illegalità “non si può permettere” una magistratura efficiente.

Dunque, la stragrande maggioranza delle responsabilità dell’inefficienza dell’amministrazione della giustizia sono indiscutibilmente frutto di precise scelte politiche.

Se, infatti, si esamina la legislazione degli ultimi quindici anni in materia di giustizia si vede che il Parlamento italiano è stato massicciamente impegnato non già nel risolvere i problemi della giustizia, perché funzionasse meglio, ma nell’assicurare l’impunità ad amici e amici degli amici.

E per fare quelle leggi ad personam spesso ha lavorato anche di notte e a tappe forzate.

La legislazione in materia degli ultimi quindici anni può essere qualificata (con evidenti responsabilità trasversali di TUTTI gli schieramenti politici: basti pensare all’indulto votato del tutto trasversalmente) come una legislazione non “sulla giustizia” o “per la giustizia”, ma “contro la giustizia”.

A queste decisive e preponderanti responsabilità politiche si aggiungono quelle di una cultura – quella italiana – non particolarmente amante delle regole e della legge.

Se è vero, infatti, che i poteri forti sono grandemente radicati nell’illegalità, è altrettanto vero che i rappresentanti politici degli italiani sono un po’ simili a coloro che li hanno chiamati a rappresentarli: vengono dal basso e non piovono dall’alto.

Sicché mentre pezzi di società civile in alcune occasioni particolarmente clamorose reclamano “giustizia”, nel quotidiano si rileva una diffusissima prassi favorevole a furberie e scorciatoie che vanno dall’evasione fiscale all’abuso edilizio, dai concorsi universitari abitualmente falsi ai certificati medici di comodo, dalla truffa all’assicurazione alle frodi comunitarie, eccetera eccetera.

Questo stato di cose ha costituito per la magistratura nel suo insieme (perché non bisogna confondere la “magistratura nel suo insieme” con alcuni suoi eroici esponenti: i magistrati non sono tutti come Giovanni Falcone, Rosario Livatino, Giangiacomo Ciaccio Montalto, Paolo Borsellino, ecc.) una vera iattura, ma anche un comodo alibi.

Il fatto che le colpe principali siano con evidenza di altri ha consentito per un verso di coprire altre colpe “interne” pur molto rilevanti e, per altro verso, di convincersi che, se tanto tutto va male, che incidenza può avere il fatto che questo o quel giudice ci metta pure del suo nel non far funzionare il sistema, “che tanto non funzionerebbe lo stesso”?!

Quest’alibi è da sempre eticamente deplorevole, ma oggi è divenuto inaccettabile sotto ogni profilo.

Oggi, infatti, l’inefficienza dell’amministrazione della giustizia ha raggiunto un livello talmente alto da snaturare letteralmente l’istituzione e da ferire gravemente valori costituzionali decisivi per la vita e la democrazia del Paese.

In questo contesto, i magistrati – per dovere etico prima di tutto, ma ormai addirittura anche per calcolo egoistico (il degrado dell’istituzione si ripercuote inevitabilmente sulle condizioni di lavoro e di stima sociale dei suoi addetti) – non possono più limitarsi a lamentarsi dei torti altrui, aspettando riforme migliorative che, con tutta evidenza, non verranno dall’esterno, ma devono avere la forza e il coraggio di riconoscere le proprie responsabilità e fare la loro parte per rimuovere quelle ragioni di inefficienza che hanno un fondamento del tutto interno alla categoria.

Insomma, non ci si può limitare a chiedersi cosa gli altri siano disposti a fare per la giustizia. Occorre chiedersi – in maniera concreta e operosa – cosa noi, i magistrati, siamo disposti a fare per la giustizia.

E ovviamente per “noi magistrati” non si intende questo o quel magistrato che già si spende eroicamente (e sono veramente tanti), ma l’insieme, la “magistratura in genere”, perché i pur tanti eroi sono percentualmente una assoluta minoranza.

E questo va fatto, oltre che per motivi etici, anche per motivi pratici.

Quando uno ti butta a mare dalla nave sulla quale viaggiavi, non puoi limitarti a urlare che è un assassino e chiedergli di pentirsi. Intanto ti devi salvare!

Sotto il profilo pratico non è molto proficuo limitarsi a indicare le colpe degli altri (cosa, comunque, tipica di noi italiani). E’ certamente più proficuo, mentre si indicano le colpe degli altri e nell’attesa che i colpevoli “esterni” magari si inducano a cambiare atteggiamento, fare ciò che è in nostro potere per aiutare noi stessi.

Se si accetta questo cambio di prospettiva (che a me pare assolutamente ineludibile), diventa necessaria – benché difficile e dolorosa – una riflessione sull’A.N.M., che sotto tanti profili rappresenta – nel bene e nel male – la magistratura italiana.


2. L’Associazione Nazionale Magistrati

L’A.N.M. è un’associazione privata di magistrati.

Essa ha la “fortuna” di poter vantare un elevatissimo numero di iscritti: 8284 sul totale di 8886 magistrati italiani in servizio (dati tratti dal sito dell’A.N.M.).

Dunque, il 93,22% dei magistrati italiani è iscritto all’A.N.M., che, quindi, non è, a ben vedere, una associazione privata di magistrati, ma la associazione dei magistrati italiani.

E’ ciò è certamente una grande opportunità, ma anche e soprattutto una ancor più grande responsabilità.


L’A.N.M. come dovrebbe essere.


A mio modesto parere, nel perseguimento dei fini di cui ai nn. 1 e 3 dell’art. 2 del suo statuto, l’A.N.M. dovrebbe, fra l’altro:

1. promuovere – in un’epoca di “disinformazione pilotata” su questi temi – la diffusione di notizie e informazioni corrette sulle vicende della giustizia;

2. difendere e diffondere i valori costituzionali in materia di amministrazione della giustizia;

3. difendere la giurisdizione – e a volte purtroppo anche singoli magistrati – quando (come ormai abitualmente accade) vengano fatti oggetti di aggressioni mediatiche funzionali alla difesa di interessi di parte;

4. promuovere all’interno della magistratura una cultura dell’efficienza e della imparzialità che consenta all’amministrazione della giustizia di avvicinarsi al modello dettato dalla Costituzione;

5. rappresentare agli organi istituzionali – fra i quali il C.S.M. e il Ministero della Giustizia – le esigenze della giustizia, svolgendo nei loro confronti una funzione di controllo democratico e di coscienza critica.

6. difendere le legittime istanze sindacali dei magistrati come categoria di dipendenti dello Stato.


L’A.N.M. com’è.

L’A.N.M. oggi, purtroppo, fa ben poco delle cose sopra elencate perché è principalmente impegnata con tutte le sue energie, ogni istante del giorno e ogni giorno dell’anno a fare un’altra cosa che le dovrebbe essere vietata e che tradisce di fatto tutti i principi sui quali essa si fonda e ai quali dice di ispirarsi.

Va detto, in verità, che l’A.N.M. è solo una sovrastruttura. L’A.N.M., infatti, non vive di vita propria. Si potrebbe dire – con una provocazione che a ben vedere tale non è (essendo un’affermazione molto molto vicina alla verità) – che l’A.N.M. non esiste ed è solo un involucro (un’apparenza, un luogo di legittimazione solo formale) del quale si servono gli enti che – essi si – esistono e vivono al suo interno: le “correnti”.

La vita dell’A.N.M. non è altro che la somma – giustapposta e più spesso malapposta – della vita delle singole correnti che operano al suo interno e ne hanno parassitizzato ogni molecola.

E’ dunque inevitabile interrogarsi sul perché ciò accada e – a tal fine – porsi almeno i quesiti di cui qui appresso.

Anzitutto bisogna chiedersi se le “correnti” non abbiano finito per avere come obiettivo sostanzialmente unico (lo negano costantemente, ma i fatti ogni giorno sono lì a provarlo) la raccolta di consensi elettorali fra i magistrati, necessari (i consensi) a fare eleggere al C.S.M. colleghi designati da loro e fra i loro iscritti.

L’alibi per questa operazione dalle devastanti conseguenze sull’esercizio concreto della giurisdizione è quello di portare al C.S.M. magistrati che promuovano nell’organo di autogoverno i “valori ideali” ai quali ciascuna corrente dice di ispirarsi.

E in passato è stato anche così. Ma è così ancora oggi?

E’ indiscutibile che le “correnti” dell’A.N.M. abbiano meriti storici grandissimi nella costruzione di una magistratura conforme alle disposizioni della Costituzione.

Ma invocare continuamente i meriti storici non può essere un alibi sufficiente a nascondere le colpe odierne.

Anche la D.C. e il P.C.I. (e il P.S.I. e gli altri partiti) hanno avuto nel nostro Paese meriti storici grandi e indiscutibili, ma è evidente che quei meriti sono, appunto, “storici”.

Il problema che abbiamo – nel Paese e nella magistratura – non è dare medaglie e riconoscimenti, personali o collettivi, a quello o a quell’altro (e ovviamente neppure cercare colpevoli della involuzione del sistema e minacciare punizioni), ma capire cosa accede OGGI per decidere COSA CONCRETAMENTE FARE OGGI.

Diversamente somigliamo a vecchi tromboni, dalle idee e condotte anacronistiche e superate, che, a capo di un’azienda per tradizione e successione familiare, la fanno andare in malora, rifiutando ogni innovazione con il ricordare come nel dopoguerra, grazie alla fatica e al sudore di papà, l’azienda è venuta su e così continuerà nonostante le mille rivoluzioni del mondo esterno che, invece, nella realtà, la spazzeranno puramente e semplicemente via.

E oggi tutti – magistrati e non, uomini politici e comuni cittadini – sanno benissimo che ciò che le correnti chiedono a coloro che fanno eleggere al C.S.M. – al di là di ogni impegno culturale (quando c’è) – é di esprimere, nell’amministrazione quotidiana e concreta della magistratura, i voti funzionali agli interessi di carriera e di vita professionale dei loro iscritti.

Attenzione: è certo ed evidente che nell’A.N.M. e nelle sue correnti (come d’altra parte nei partiti politici) militano numerosissime persone di eccezionale valore morale, umano e professionale.

Ma:

1. quando ci si interroga su che fare collettivamente, è necessario guardare al sistema nel suo insieme: se si deve decidere se lasciare o no in vita il Ministero della Cultura Popolare (è solo un esempio paradossale), è inutile andare a vedere se nei suoi uffici ci sono anche bravissime persone; occorre guardare all’impianto complessivo e al ruolo che concretamente svolge quell’ente, alle concrete conseguenze che la sua esistenza e il suo operare hanno nella società;

2. la presenza nel sistema di nobili galantuomini non può essere usata come alibi per coprire le eventuali nefandezze del sistema nel suo insieme.

E d’altra parte, se sarebbe ingiusto coinvolgere nel giudizio negativo su un sistema i singoli (anche per bene) che di esso fanno parte, altrettanto ingiusto sarebbe che questi ultimi pretendessero di coinvolgere nel giudizio positivo su di essi l’intero sistema, finendo per impedirne un’analisi e una critica adeguate alla situazione.

In questa prospettiva, dunque, fermo restando il riconoscimento dovuto all’opera meritoria di tanti galantuomini nell’A.N.M. e nelle sue correnti, bisogna chiedersi se la vita delle correnti medesime non sia oggi funzionalmente ispirata prevalentemente (se non a volte addirittura esclusivamente) alla ricerca e alla gestione del consenso elettorale di cui si è detto e se il legame perverso che si genera fra le correnti e coloro che esse candidano al C.S.M. sia tale che costoro ricambiano il favore ricevuto di essere mandati al C.S.M. obbedendo – nell’esercizio delle loro funzioni – alle indicazioni della corrente alla quale dichiarano di “appartenere” (e qui il verbo assume una valenza esplicitamente e decisamente deplorevole).

Emerge documentalmente che nella stragrande maggioranza dei voti espressi dai consiglieri del C.S.M. i consiglieri “appartenenti” a ciascuna corrente votano nello stesso modo e, per giunta – non si può non sospettare – proprio nel modo auspicato dalla corrente di appartenenza e funzionale agli interessi di uno o più iscritti alla corrente medesima.

Mentre è di tutta evidenza che nella maggior parte delle questioni di competenza del C.S.M. dovrebbero realizzarsi normali e lodevoli divergenze di vedute anche fra i consiglieri “appartenenti” (verrebbe da dire “di proprietà”) della stessa corrente.

Mentre, infatti, è normale e accettabile che i consiglieri del C.S.M. votino omogeneamente per corrente di appartenenza le poche volte che sono in discussione temi di politica generale della giurisdizione, appare del tutto abnorme e viziato che vengano espressi correntiziamente i voti nella Sezione Disciplinare o nella nomina di un Presidente di Tribunale o nelle mille quotidiane minute questioni di amministrazione della magistratura.

Se il sistema non fosse gravemente malato, infatti, dovrebbe avvenire abitualmente che due consiglieri della stessa corrente si facciano idee diverse sulla responsabilità o no di quel magistrato in quella vicenda disciplinare o sul fatto che alla condotta accertata debba attribuirsi o no rilievo disciplinare, oppure che valutino diversamente i titoli di idoneità di Tizio o di Caio ad assumere l’incarico di Presidente di questo o quel Tribunale e dovrebbe addirittura accadere che magistrati “appartenenti” a una corrente votino senza difficoltà – e senza contropartite spartitorie – un magistrato iscritto ad altra corrente che risulti idoneo a questo o quell’incarico direttivo.

I membri del Consiglio Superiore della Magistratura dovrebbero agire e votare liberi da qualsiasi vincolo di mandato e, invece, come si è appena detto, fanno tendenzialmente l’esatto contrario e, addirittura, una corrente ha formalizzato l’esistenza di un “Gruppo Consiliare” della corrente al C.S.M., dando vita a un istituto che nessuna norma prevede e che nuoce gravemente sia alla sostanza che alla apparenza di ciò che il C.S.M. dovrebbe essere e fare.

Il problema di fondo è dunque costituito dalla necessità di chiedersi, senza infingimenti, se non si debba prendere atto che, così stando le cose, l’A.N.M. di fatto (prescindendo dalle concrete intenzioni dei singoli) non “controlli” il C.S.M. e lo faccia in maniera costante e del tutto invasiva.

Se questa analisi fosse fondata, allora si dovrebbe prendere atto che l’A.N.M. (o meglio, le sue correnti) gestisce in maniera immediata e diretta potere e potere che non le spetta e non dovrebbe avere, con ciò dando luogo (ancora prescindendo dalle concrete intenzioni dei singoli) a un legame perverso con gli elettori/clientes; legame fondato sul fatto che le correnti chiedono ai magistrati voti e offrono in cambio favori da parte dei “loro” consiglieri al C.S.M..

I magistrati debbono rivogersi al C.S.M. in molte occasioni importanti della loro vita professionale: per avere un trasferimento, per ottenere una promozione, per vincere un concorso per l’assegnazione di un posto direttivo, per essere autorizzati a svolgere un incarico stragiudiziale, per ottenere una sentenza favorevole dalla Sezione Disciplinare, per ottenere un congedo straordinario, ecc.

Chi si iscrive a una corrente e/o si fa amici i responsabili di una corrente sa di poter contare sul potere di condizionamento che quella corrente ha sul C.S.M. per ottenere ciò che di volta in volta gli sia utile.

Inoltre tutte le correnti assicurano a coloro che si impegnano al loro interno una ottima carriera, che può consistere nella possibilità di ottenere incarichi prestigiosi ai vertici degli uffici giudiziari, ovvero la designazione come candidati_certamente_eletti al C.S.M., ovvero altri incarichi vari (ministeriali e non).

E il paradosso della malattia è che il sistema ha uno schema logico tale che non è più nemmeno importante quanto la corrente di appartenenza sia numerosa per iscritti e per componenti del C.S.M..

Le correnti, infatti, hanno dato luogo – nei fatti, secondo le intenzioni di alcuni cinici opportunisti e a prescindere dalle intenzioni di alcuni singoli benintenzionati – a una lottizzazione di tutto, che tiene conto in maniera proporzionale del peso di ciascuna corrente.

Ed è vero che una corrente meno pesante (per numero di iscritti) avrà nel tempo complessivamente meno seggi al C.S.M. di una corrente più pesante e così pure meno posti direttivi nei Tribunali e nelle Procure, ma è altrettanto vero che gli iscritti e i clientes della corrente più piccola sono di numero inferiore a quelli della corrente più grande, sicché complessivamente tutti gli iscritti e i clientes di tutte le correnti otterranno (e in tempi sostanzialmente uguali) quello che vogliono.

Il grado e la invasività della lottizzazione spartitoria della quale ho detto sono tali che:

1. Sono tendenzialmente lottizzati e spartiti fra le correnti tutti i posti direttivi di un qualche rilievo, nonché posti come quelli del Comitato Scientifico del C.S.M. (anche la scienza è stata spartita!), quelli dei magistrati segretari del C.S.M. e altri ancora. A volte (e non poche volte) ci si dividono correntiziamente anche modesti incarichi come il tenere una relazione scientifica (che a volte, proprio perché lottizzata, non è tanto scientifica) a un corso di formazione organizzato dal C.S.M..

2. Quando la situazione dei posti a concorso non consente una spartizione rigidamente rispettosa delle pretese delle correnti, si lasciano i posti scoperti, finché non se ne scopra un numero tale da consentire la spartizione pretesa. E’ accaduto, così, di recente – per quanto possa apparire del tutto assurdo – che si siano lasciati scoperti per molti mesi posti del Massimario della Corte di Cassazione in attesa di poterli coprire in maniera “proporzionalmente suddivisa” [spartita] per correnti. Accade abitualmente, peraltro, che lo schema di azione di molti Consiglieri del C.S.M. (non tutela dell’interesse pubblico, ma difesa dei privilegi correntizi) faccia durare anni l’espletamento dei concorsi per gli uffici direttivi più importanti. Si tratta di concorsi per titoli e non per esami. Sicché la loro definizione dovrebbe avvenire molto rapidamente, perché, scaduto il termine per la presentazione delle domande, il C.S.M. ha tutti gli atti necessari e sufficienti alla definizione della pratica e non resterebbe che ascoltare le opinioni di tutti i Consiglieri e votare. Peraltro, la copertura dei posti direttivi di importanti uffici giudiziari di frontiera è essenziale per la loro efficienza. A mero titolo esemplificativo (e non è per nulla il caso più grave) basti considerare che il 18.11.2006 è rimasto scoperto il posto di Procuratore della Repubblica di Catania. La vacanza era prevista da mesi e mesi, perché si è verificata per il raggiungimento (ovviamente noto da prima nell’an e nel quando) del limite di età da parte del precedente Procuratore. A distanza di un anno quel posto non è stato ancora coperto. Ed è evidente come, a prescindere dai motivi di una cosa tanto illogica e inaccettabile, questo fatto costituisca un danno gravissimo per la lotta alla criminalità in una città e in una regione che di una Procura efficiente hanno un bisogno enorme.

3. Una menzione particolare meritano poi i Consigli Giudiziari, importantissimi organi consultivi del C.S.M.. Per contorte ragioni figlie delle stesse logiche spartitorie di cui sopra, le elezioni dei Consigli Giudiziari sono sostanzialmente una recita. Le correnti decidono fra loro chi dovrà essere eletto e assegnano ai magistrati – normalmente dando loro dei foglietti con i nomi di coloro per i quali devono votare – il compito di votare in modo che risultino eletti tutti e solo i magistrati scelti, nel rigoroso rispetto di un manuale Cencelli, dalle correnti. Da una mail inviata da un componente del Consiglio Giudiziario di Roma a una mailing list ho appreso (con indicibile stupore) che solo da poco sarebbe stata interrotta lì la prassi (eufemismo che nasconde la reale natura della cosa) per la quale l’incarico di redigere i pareri per la progressione in carriera dei magistrati veniva assegnato di volta in volta a un magistrato appartenente alla stessa corrente del magistrato da valutare. Ed è inutile illustrare con quali conseguenze sul sistema!

4. Il degrado nella gestione del C.S.M. da parte dei Consiglieri lottizzati e lottizzatori è tale che sempre più spesso i provvedimenti del C.S.M. in materia di nomina di capi degli uffici giudiziari vengono annullati dal T.A.R. e dal Consiglio di Stato. E, se si considera che il giudice amministrativo può sindacare solo le violazioni di legge e non anche il legittimo esercizio della discrezionalità propria del C.S.M., se ne deve dedurre che sempre più spesso i Consiglieri del C.S.M. adottano provvedimenti palesemente illegittimi. Tra i tanti casi veramente clamorosi, uno sicuramente emblematico è quello occorso alcuni anni fa, per la copertura del posto di Presidente del Tribunale di Catania (conosco le vicende di quella città, perché è lì che lavoro), deciso dal Consiglio di Stato, con la sentenza n. 701 del 1997, dai contenuti veramente durissimi sui metodi di lottizzazione correntizia in questione presso il C.S.M.. In quella occasione, accadde, addirittura che il C.S.M. ricorse a un avvocato del libero foro (a fronte del motivato rifiuto dell’Avvocatura dello Stato a difenderlo) per promuovere un inverosimile conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte Costituzionale al fine di sottrarsi alla giurisdizione del giudice amministrativo. La Corte Costituzionale respinse ovviamente il ricorso con la sentenza n. 419 dell’8.9.1995. In quell’occasione, il Tribunale di Catania restò senza Presidente per circa cinque anni.


Le considerazioni fin qui svolte illustrano una situazione nota a tutti, nella magistratura e fuori, e nonostante questo ogni volta che qualcuno le prospetta, si erge un fuoco di sbarramento di offesa indignazione, con l’invito a “fare nomi”, a “dare prove”, a “non delegittimare le istituzioni”, a “non fare di tutta l’erba un fascio”, ecc.

Va, quindi, ancora ribadito (benché a questo punto risulti pedante) che quella esposta qui è solo un’analisi politica di carattere generale di un sistema complessivo di gestione dell’autogoverno della magistratura. Non si tratta qui di individuare responsabilità di singoli, né di mettere in discussione l’onore e il prestigio di organi di rilievo costituzionale. Si tratta solo di cercare di capire perché le cose non vanno e così tanto gravemente.

D’altra parte, che l’analisi appena fatta abbia un qualche fondamento si trae dalle parole proprio del Presidente della Commissione Trasferimenti del C.S.M., cons. Mario Fresa, che ha scritto, fra l’altro, – in una relazione su un anno di mandato che può leggersi anche su internet, nel sito del Movimento per la Giustizia, dal quale l'ho tratto – “Lo stato delle numerose pendenze e, in particolare, i ritardi con i quali sono stati espletati nella passata consiliatura i concorsi per i trasferimenti ordinari, vanno ricollegate invero al tema della irragionevole durata delle pratiche consiliari, che si riverbera inevitabilmente in una serie di disfunzioni negli uffici giudiziari e, in ultima analisi, nella irragionevole durata dei processi (vacanze prolungate negli organici degli uffici giudiziari determinano inevitabilmente un allungamento dei tempi processuali).
Il monito proveniente dal Capo dello Stato, seguito con convinzione dall’ex Vicepresidente del CSM Rognoni e poi dal neo eletto Vicepresidente Mancino, secondo cui ancora oggi esiste un forte potere delle correnti dell’ANM che condiziona e rallenta le scelte consiliari per piegarle agli interessi localistici e dei gruppi organizzati, va pertanto condiviso in quanto espressione di un disagio dell’opinione pubblica e dello stesso corpus della magistratura, che vedono nei tempi lunghissimi di espletamento delle pratiche motivi di inefficienze e disfunzioni degli uffici giudiziari, nonché preoccupazioni correlate ai sospetti, spesso fondati, di “patologie correntizie”.
Non è un caso che le ferme critiche del Capo dello Stato siano state svolte in riferimento soprattutto alla gestione del personale. Una procedura concorsuale non può durare a lungo, specie se ciò è dovuto alla ricerca di un punto di equilibrio tra le correnti e le componenti laiche, una sorta di pacchetto-compromesso che accontenti tutti”
.

Lo stesso Presidente Fresa, parlando della gravissima vicenda relativa alla copertura dei posti al Massimario della Corte di Cassazione (alla quale ho già fatto cenno sopra), aggiunge (ibidem): “Invero, quando ho iniziato a leggere gli atti del procedimento, ho verificato che i fascicoli di più della metà degli aspiranti non erano ancora stati esaminati, non essendo stati redatti i c.d. “medaglioni” di tali aspiranti (i profili professionali non erano ancora stati tracciati dai magistrati segretari).
Poiché le voci che giungevano negli uffici giudiziari riguardavano scontri su possibili nomi, è parso evidente che le divisioni riguardavano schieramenti precostituiti, a prescindere dall’esame dei profili professionali in forza dei quali quelle scelte dovevano essere effettuate. Il metodo operativo che veniva seguito (che non rappresentava una novità, attesa la mia pregressa conoscenza degli “interna corporis”) era quello della spartizione correntizia, a prescindere dalla effettiva comparazione dei percorsi professionali secondo il dettato della Circolare”
.

Si tratta di una denuncia di enorme gravità, in considerazione sia del contenuto di essa che dell’autorevolezza istituzionale e della credibilità personale dell’autore.

E ancora, nella stessa relazione, con riferimento alla copertura di nove posti di Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, assegnati “per quasi due terzi a ex componenti del C.S.M.”, il Presidente Fresa denuncia: “Abbiamo rimarcato in sede plenaria che, sebbene tutti i componenti togati abbiano professato in campagna elettorale un deciso no alle logiche di appartenenza, la proposta Ferri appare come il trionfo di una sorta di favore ingiustificato per coloro che hanno ricoperto incarichi comunque legati alla “carriera associativa”, fermamente rifiutato nella proposta Fresa ove, anzi, vengono proposti soltanto candidati capaci professionalmente (alcuni dei quali, peraltro, notoriamente aderenti ad Unicost). In sostanza, la pur importante esperienza fatta in sede consiliare non può costituire una sorta di passepartout che apre tutte le porte a prescindere dalla valutazione dei meriti.
Purtroppo, la discussione plenaria è stata turbata dalla notizia di una commendevole polemica (…) nei confronti del PG della Cassazione (…) Alla fine, abbiamo purtroppo dovuto ancora constatare che le logiche correntizie, lungi dall’essere debellate, permangono tuttora nell’organo di governo autonomo della magistratura”
.

Né si può dimenticare che qualche mese fa un gruppo di Sostituti Procuratori Generali della Repubblica presso la Corte di Appello di Roma hanno inviato al Vicepresidente del C.S.M. una accorata lettera con la quale manifestavano la loro indignazione e preoccupazione per il modo con cui il C.S.M. “gestisce” i concorsi per la copertura di importanti uffici giudiziari.

Anche in questo caso si tratta di una denuncia proveniente da persone più che autorevoli.

Infine, sul punto, molto significativa è l’analisi/confessione fatta dal Consigliere del C.S.M. Antonio Patrono, pubblicata con il titolo “Una lodevole confessione”.


3. Le conseguenze di tutto ciò sull’amministrazione della giustizia.

Tutto questo è stato sempre assai grave e del tutto inaccettabile (anche se per varie ragioni invece misteriosamente accettato dai magistrati italiani), ma ora è davvero del tutto intollerabile e ciò perché il sistema fin qui descritto ha avuto ricadute devastanti sull’efficienza del servizio che l’amministrazione giudiziaria è chiamata a dare ai cittadini.

E, come si è già detto, oggi cambiare quanto fin qui esposto non è più solo un imperativo etico, ma una necessità assoluta e urgente in relazione al fatto che tutto quanto fin qui detto è una delle cause principali della totale inefficienza dell’amministrazione della giustizia.

Infatti, la nomina dei capi degli uffici giudiziari secondo logiche spartitorie di appartenenza, fa sì, per un verso, che molti uffici giudiziari importanti finiscano con il non essere diretti dalle persone più idonee a farlo e, per altro verso, che i magistrati tutti non siano stimolati a promuovere e sviluppare attitudini e qualità idonee a gestire con la migliore efficienza possibile gli uffici, direttivi e non, se è vero come è vero che la loro carriera sarà influenzata più che da virtù come quelle, dal sostegno o no di questa o quella corrente.

Così come evidenti sono le conseguenze sul servizio che la magistratura deve rendere quando accada che la giustizia disciplinare e il sistema dei controlli che il C.S.M. gestisce non siano ispirati alla ricerca e al perseguimento di concreti e specifici obiettivi di efficienza del sistema, ma al mantenimento di deplorevoli clientele.

Così non solo l’A.N.M. delle correnti finisce con l’interferire con l’attività del C.S.M., ma, facendo quotidianamente gli interessi di singoli soci, non fa quello della giurisdizione nel suo insieme.

Come si è già detto, in questi ultimi anni il livello di efficienza del sistema giudiziario è sceso a livelli davvero bassissimi.

In gran parte per responsabilità del potere politico, ma in parte molto molto rilevante anche per responsabilità di moltissimi magistrati che, nello sfascio generale del sistema, trovano alibi per la loro neghittosità e scarsa deontologia.

Nulla le correnti dell’A.N.M. sono portate a fare contro tutto questo, perché, essendo loro interesse la raccolta di consenso fra i magistrati, non è agevole rischiare quel consenso con politiche di rigore e di denuncia.

Da anni l’A.N.M. fa solo proclami e lancia invettive contro i nemici esterni, offrendo – nei fatti e a prescindere dalle intenzioni – una copertura totale (consistente, fra l’altro, appunto, anche nel silenzio sulla loro esistenza) a quelli che potremmo definire i “nemici interni” della giustizia.

Nei fatti non vi è alcun reale controllo della professionalità dei magistrati, né sotto il profilo della loro efficienza quantitativa né sotto quello della loro capacità qualitativa.

I pareri dei Consigli Giudiziari in occasione della progressione in carriera dei magistrati sono generalmente tutti positivi, a volte esageratamente. Anche quelli di magistrati noti a tutti – dentro e fuori la magistratura – per la loro neghittosità e per la loro bassissima deontologia (significativo sul punto l’intervento di un componente di un importante Consiglio Giudiziario in una mailing list di magistrati).

Così come vi è una diffusa sostanziale impunità dei magistrati con riferimento alla maggior parte delle loro condotte produttive di disservizi.

E’ vero che la giustizia disciplinare dei magistrati è fra quelle che funziona meglio nella pubblica amministrazione, ma ciò non può consolare, se si tiene conto del pochissimo prestigio di cui gode, purtroppo, sotto questo profilo la pubblica amministrazione del nostro Paese e del fatto che proprio perché la magistratura ha nell’impianto costituzionale il posto assai rilevante che magistrati sempre giustamente le rivendicano e a lei sono affidati beni preziosi per la vita dei cittadini (la loro libertà personale, il loro patrimonio, ecc.), da essa ci si aspetta legittimamente uno standard un pochino superiore a quello dell’“impiegato statale medio”.

Non deve stupire, quindi, che fuori della magistratura si senta il bisogno di imporre la presenza di “estranei” nei Consigli Giudiziari e forme di controllo della professionalità che, pensate da estranei non sempre (o quasi mai) disinteressati (in mancanza di opportune e adeguate iniziative della magistratura), appaiono peggiori del male che dovrebbero curare.

Ed è evidente che è colpa grave della magistratura non avere mai voluto affrontare seriamente questi problemi, offrendo per essi delle soluzioni corrette e rispettose dei principi costituzionali.

Mentre è prova di una ottusità (intellettuale, etica e politica) che non è possibile assolvere la pretesa di opporsi alle (pessime) riforme proposte dall’esterno rifiutandosi, però, contemporaneamente, di mettere in atto soluzioni concrete dall’interno.

La pretesa della magistratura associata è, nei fatti e al di là dei programmi piene di ottime intenzioni, quella di lasciare le cose come stanno, continuando a dare la colpa di tutto agli altri.

La magistratura ha l’“autogoverno” a tutela della propria indipendenza. Ma, ovviamente, se l’autogoverno (oltre a non garantire l’indipendenza “interna” dei magistrati) diventa (come allo stato appare nei fatti) uno strumento di copertura della loro inefficienza è giocoforza che la politica e il paese prima o poi, in maniera diretta o strisciante, glielo tolgano.

Non a caso la maggior parte delle (discutibili) riforme contenute nel nuovo ordinamento giudiziario e/o nelle ulteriori proposte di riforma corrispondono all’esigenza di far fronte a gravi “vizi” dell’autogoverno: si considerino per tutte, la proposta di inserire avvocati nei Consigli Giudiziari (se i Consigli Giudiziari sfornano corporativamente pareri tutti e sempre elogiativi anche in favore di magistrati palesemente immeritevoli, è inevitabile che si ipotizzi di introdurvi “controllori esterni”); la temporaneità degli incarichi direttivi (se i capi degli uffici vengono scelti con criteri inadeguati e mantenuti per anni al loro posto anche quando appare evidente che non fanno ciò legittimamente ci si aspetterebbe da loro, è inevitabile che si sperimentino sistemi per “limitare i danni”); l’obbligatorietà dell’azione disciplinare (se l’azione disciplinare viene esercitata poco e male – con una selettività occhiuta – è inevitabile che si cerchi di ovviare in qualche anche inappropriato modo al problema).

Difendere l’autogoverno è un dovere morale e civile della magistratura (perché equivale a difendere la propria indipendenza “esterna”), ma qualunque difesa dell’autogoverno è impraticabile se vulnerare l’autogoverno diventa l’unica via possibile per combattere l’inefficienza.

Parla del nuovo ordinamento giudiziario come di una opportunità per cambiare Pierluigi Picardi, Componente del Consiglio Giudiziario presso la Corte di Appello di Napoli, in una mail inviata alla mailing list di una corrente, che, con il suo consenso è stata pubblicata , con il titolo “Autogoverno o malgoverno?”.


Accade, infine, un’altra cose deleteria.

I magistrati che occupano posti di vertice nelle correnti e per esse nell’A.N.M. sono anche quelli che riescono a ottenere maggiore visibilità nei media e nei corridoi del potere.

Accade così, come si è già detto, che la militanza nelle correnti sia la chiave che apre le porte di accesso (legittimo, per carità) anche a molti posti di potere, che vanno da quelli al C.S.M. di cui si è già detto a quelli nei ministeri, eccetera.

Basta andare sul sito internet dell’A.N.M. e cliccare sul link al Comitato Direttivo Centrale, per verificare quanti componenti di quell’organo lo abbiano lasciato per andare al C.S.M. o a un incarico ministeriale.

Ciò dà luogo al paradosso di un’associazione sindacale i cui vertici vengono costantemente arruolati dal datore di lavoro. Con le INEVITABILI conseguenze sul piano della efficacia e determinazione della lotta sindacale.

Come potrebbe esercitare i suoi compiti di controllo democratico del “sistema” chi ha la possibilità – che, com’è naturale, subito diventa legittimamente ambizione – di entrare a far parte del “sistema”?

L’ennesimo caso di “conflitto di interessi”, che potrebbe essere agevolmente risolto prevedendo un adeguato periodo di incompatibilità (non meno di otto anni, considerato che un C.S.M. dura in carica quattro anni) fra cariche associative/sindacali e cariche istituzionali, ma che neppure viene preso in considerazione.

Così, ritornando all’elenco dei compiti dell’A.N.M. fatto all’inizio, si è costretti a prendere atto che:

1. Quanto a “promuovere – in un’epoca di “disinformazione pilotata” su questi temi – la diffusione di notizie e informazioni corrette sulle vicende della giustizia”, ciò è ridotto alla sola emanazione – peraltro neppure sempre tempestiva – di stringati “comunicati stampa”, redatti in un linguaggio politicamente arcaico, pieni di espressioni come “l’A.N.M. auspica”, “l’A.N.M. deplora” o “stigmatizza” o “denuncia” e simili e ormai relegati alla tredicesima pagina dei quotidiani. Per di più mai l’A.N.M. (non questa o quella corrente) ha preso o prende posizione sui fatti deplorevoli che avvengono all’interno del C.S.M., per la semplice ragione che chi ha il potere nell’A.N.M. è, nei fatti, l’ispiratore delle condotte dei Consiglieri del C.S.M. che l’A.N.M. dovrebbe discutere e in molti casi deplorare. Sicché la impropria osmosi fra A.N.M. e C.S.M. priva la magistratura di uno strumento di controllo del quale avrebbe un gran bisogno e che sarebbe indispensabile per una gestione veramente democratica (e sul concetto di democrazia tornerò più avanti) del potere giudiziario. In sostanza nessuno controlla il C.S.M. nel senso che l’espressione ha nella dialettica democratica e ciò perché l’A.N.M., che dovrebbe esercitare quel controllo, non può farlo, perché ne esercita uno negativo di altro tipo. Dunque, come ha lucidamente osservato Stefano Racheli in un articolo su “Il Riformista” del 5.9.2007, pubblicato ora anche qui, finiamo con l’essere in presenza di un regime, nel senso tecnicamente proprio di questa espressione.


2. Quanto a “difendere e diffondere i valori costituzionali in materia di amministrazione della giustizia”, lo si fa a parole, ma nei fatti la prassi dell’“appartenenza” e della “lottizzazione” alle quali si fa riferimento nella relazione del Presidente Fresa sono proprio il contrario dei valori costituzionali in questione, così come lo è l’inefficienza della giurisdizione. E a nulla serve contro queste prassi e questi fatti – ben noti a tutti fuori e dentro l’amministrazione della giustizia – mandare ogni tanto questo o quel magistrato a tenere una conferenza in una scuola.

3. Quanto a “difendere la giurisdizione – e a volte purtroppo anche singoli magistrati – quando (come ormai abitualmente accade) vengano fatti oggetti di aggressioni mediatiche funzionali alla difesa di interessi di parte”, anche questo viene fatto solo con i “comunicati stampa” di cui sopra. Ciò a volte anche perché nelle vicende che richiederebbero un intervento da parte dell’A.N.M. sono coinvolti magistrati difesi da questa o quella corrente, sicché, grazie a un sistema di veti incrociati, si finisce con il non fare nulla. Esemplare – purtroppo, in negativo – il caso recente delle vicende della Procura della Repubblica di Catanzaro, con riferimento alle quali nessuna posizione ha assunto l’A.N.M. centrale e una posizione molto discutibile ha assunto la Sezione locale dell’A.N.M. medesima, non sconfessata dagli organi centrali.

4. Quanto al “promuovere all’interno della magistratura una cultura dell’efficienza e della imparzialità che consenta all’amministrazione della giustizia di avvicinarsi al modello dettato dalla Costituzione”, è superfluo sottolineare come la lottizzazione e spartizione di cui sopra neghino in radice quei valori e come la sistematica impunità – dentro l’amministrazione della giustizia – di coloro che alle lottizzazioni danno luogo e dalle lottizzazioni traggono vantaggio induca un costante e definitivo deterioramento della deontologia complessiva dei magistrati.

5. Quanto al “rappresentare agli organi istituzionali – fra i quali il C.S.M. e il Ministero della Giustizia – le esigenze della giustizia, svolgendo nei loro confronti una funzione di controllo democratico e di coscienza critica”, ciò è reso del tutto impossibile per il C.S.M., per l’osmosi indebita esposta sopra fra A.N.M. e C.S.M.. Mentre è difficile fare la voce grossa con un Ministro che periodicamente arruola fra i suoi direttori generali, capi uffici legislativi, eccetera, parte degli organi direttivi di questa o quella corrente.

6. Quanto, infine, a “difendere le legittime istanze sindacali dei magistrati come categoria di dipendenti dello Stato”, questo si potrebbe anche fare, ma, per un verso, non restano tempo ed energie per farlo e per altro verso le istanze sindacali non sono in tono con il ruolo che i protagonisti della vita delle correnti si sono dati. Evitando approfondimenti inopportuni in questa sede, ci si può limitare a prendere atto che nei fatti le rivendicazioni sindacali sono assai poche e poco efficaci e che, addirittura, la qualifica di “sindacato” per l’A.N.M. viene ritenuta disonorevole. Va detto, peraltro, che delle rivendicazioni sindacali – auspicate dai magistrati normali – non possono sentire il bisogno i professionisti dell’associazionismo giudiziario. Costoro, come si è già detto, fanno un’ottima carriera e hanno significative soddisfazioni professionali, diversamente da quanto sempre più spesso accade alla maggior parte dei magistrati comuni, che passano la vita a leggere quintali di carte e scrivere migliaia di provvedimenti la cui concreta efficacia è vanificata dal degrado complessivo del sistema.


Come si è già detto, va ribadito che è del tutto ovvio che nell’A.N.M. e nelle correnti a cui essa è ridotta militano anche magistrati di assoluta correttezza e rettitudine e di sincero e abnegato impegno.

Ma ciò non toglie che il sistema complessivo sia o almeno appaia quello sopra descritto.



4. Che fare!

La risposta deve essere diversa per i magistrati e per i cittadini in genere.

I cittadini, a mio parere, devono reclamare con ogni mezzo dai politici e dai magistrati un impegno concreto e tangibile (allo stato mai offerto) di recupero dell’efficienza del sistema giudiziario, efficienza che non è un “lusso” ma un diritto costituzionale dei cittadini e addirittura un presupposto ineludibile di una democrazia, che, diversamente da ciò che si tenta di fare credere, non è principalmente un metodo di scelta dei governanti, ma un metodo di esercizio del potere.

I cittadini devono pretendere dalla politica che non usi le colpe dei giudici per coprire le proprie e dai giudici che non nascondano dietro le colpe della politica le loro gravi responsabilità nella pessima gestione del loro autogoverno.

I magistrati debbono chiedersi cosa, in questo contesto, possano fare le persone bene intenzionate che operano dentro le correnti dell’A.N.M..

Con riferimento a queste ultime, il primo passo è decidere che qualcosa debbano fare.

Qualcosa di simile all’affermazione che il primo passo verso la guarigione di un malato è che egli prenda coscienza della sua malattia.

Perché ormai da più di trent’anni coloro che operano nelle correnti seguono sempre lo stesso schema logico e dicono di credere (e non è davvero possibile stabilire se, nonostante ormai la storia li smentisca, siano sinceri o no) che non ci sia altro schema di condotta possibile.

Costoro da decenni si limitano a:

1. dirsi diversi e migliori degli altri (e alcuni lo sono davvero, ma invano);

2. cercare voti per la loro corrente, offrendo agli elettori l’illusione (nella quale alcuni di loro – non troppi – magari credono in buona fede) di programmi bellissimi e nobilissimi, che si dovrebbero realizzare quando i “buoni” saranno diventati nell’A.N.M. una maggioranza.

Essi accettano – a parole – ogni proposta che non metta, però, in discussione i due punti testé esposti.

Mentre tacciano di utopistica e, addirittura, di scandalosa e disonesta ogni proposta che metta in discussione i due punti medesimi.

E’, però, di solare evidenza che è proprio lo schema di procacciamento e gestione di quel consenso elettorale a mantenere in vita il “sistema” attuale e negli esatti termini in cui è da anni strutturato.

Sembra, quindi, evidente che, dopo il riconoscimento dello status quo come sopra scritto (riconoscimento sul quale troppi, anche fra i beneintenzionati, sorprendentemente nicchiano), il primo passo di qualunque cambiamento positivo di esso sia il decidere che lo status quo non è un destino imposto dalla Provvidenza né una situazione immutabile alla quale rassegnarsi.

Il primo passo di qualsiasi ipotesi di cambiamento è il riconoscimento della necessità etica e, comunque, pratica (se non si vuole che il processo in corso di totale squalificazione della funzione svolta dalla magistratura giunga a ulteriori e definitive conseguenze) di non accettare più il “sistema” messo su fino ad oggi e difeso all’arma bianca e con tutti i (anche deplorevoli) mezzi da coloro che da esso traggono a vario titolo benefici e utilità.

Fino ad oggi né la constatazione del degrado in atto, né il verificarsi di episodi veramente surreali nella loro gravità (Presidente della Cassazione nominato dal T.A.R., ex Consiglieri del C.S.M. mandati in massa alla Procura Generale della Cassazione con punteggi attitudinali più che doppi della media degli altri candidati, ecc.), né i convegni, né i discorsi, né le denunce di ogni tipo e in ogni sede sono riusciti a ottenere che i principali responsabili delle correnti e i beneintenzionati che in esse vivono e operano accettassero di fare questo “primo passo”.

Sembra, quindi, a questo punto che, a fronte del rifiuto – intellettuale, etico e politico – di costoro di fare questo passo, si debba trovare un modo per costringerli (ovviamente nel senso politico della parola) a farlo.

E questa coazione si può esercitare in un solo modo: negando al “sistema” il suo carburante, il voto.

L’unica cosa che i magistrati, la base, possono fare per costringere i responsabili delle correnti a riconoscere la necessità di un cambiamento è negargli ciò che essi vogliono da loro e di cui hanno bisogno per perpetuare la vita del “sistema”: il voto.

Quel voto che legittima formalmente i responsabili delle correnti a fare ciò che fanno, perché dicono di farlo in nome della magistratura.

Quel voto che dà luogo a una epocale impostura che sta alla base del sistema fin qui descritto: l’impostura per la quale un certo numero di persone persegue interessi privati dicendo di agire a nome di un intero potere dello Stato e a tutela di interessi pubblici di fondamentale rilievo costituzionale.

Dunque, l’astensione alle votazioni per il rinnovo del Comitato Direttivo Centrale del’A.N.M..

Questa astensione, peraltro, non è solo l’unico strumento idoneo a innescare un cambiamento, ma è anche un atto:

1. eticamente doveroso e

2. politicamente molto proficuo.

Quanto alla doverosità etica, bisogna sottolineare (perché viene lasciato in ombra nelle discussioni sulla questione) che, come si è detto all’inizio di queste considerazioni, l’Associazione Nazionale Magistrati non è (come il C.S.M. o un Ministero) un ente costituzionalmente necessario e istituzionalmente ineludibile, ma solo una associazione di diritto privato.

E sembra evidente che nessuno resterebbe nel direttivo di una associazione che, al di là degli statuti e delle parole, finisca con l’operare in concreto in maniera deplorevole.

Sono stato per un certo tempo nell’organo direttivo di una comunità internettiana di motociclisti.

Discutevo con gli altri dirigenti le questioni controverse, risultando vincente o perdente, ma restavo nel direttivo anche quando perdente perché le scelte fatte dalla maggioranza erano comunque eticamente accettabili.

Me ne sarei andato di corsa se la maggioranza avesse approvato formalmente o consentito nei fatti cose non commendevoli.

Puoi stare nel direttivo di un’associazione di motociclisti anche se sei in minoranza quando gli altri decidono di fare il raduno annuale al Polo Nord invece che sulle Dolomiti.

Ma non puoi restare in quel direttivo se esso approva formalmente a maggioranza oppure consente di fatto (in ipotesi) che, quando a uno dei soci si rompe un pezzo della moto, gli altri glielo procurino con dei furti.

La domanda, quindi, è: come è possibile che e perché magistrati per bene e beneitenzionati accettino di restare nel Comitato Direttivo Centrale di una associazione (l’A.N.M.) che in definitiva dà luogo a un sistema di potere come quello sopra descritto?

E la domanda che immediatamente segue è: a che servono dentro quel Comitato Direttivo Centrale i magistrati per bene e beneintenzionati che attualmente vi sono?

La risposta a quest’ultimo quesito è una sola: servono a legittimare l’intero sistema. Servono, purtroppo, a fare apparire possibili le scelte scellerate e inaccettabili della maggioranza evidentemente maleintenzionata.

E la tesi che la presenza di alcune persone per bene e beneintenzionate in un gruppo possa essere utile non è vera in assoluto, ma va verificata in concreto in relazione alle caratteristiche del gruppo.

Se il gruppo è un sistema solido e molto strutturato le poche persone per bene non serviranno a cambiarne l’azione e la loro presenza nel direttivo del gruppo servirà solo a loro per trarne dei benefici e al sistema per legittimarsi.

La storia degli ultimi trent’anni dell’A.N.M. dimostra che le brave persone inserite nel suo direttivo non hanno migliorato sotto alcun profilo la situazione della magistratura.

Quanto all’efficacia politica dell’astensione alle elezioni del C.D.C. e possibilmente della uscita dei beneintenzionati dal C.D.C. medesimo, essa deriverà dalla conseguente immediata e insuperabile delegittimazione dei maleintenzionati che rimarranno.

Che appariranno per ciò che sono e non saranno più legittimati da quella che sopra è stata definita come una menzogna epocale: il perseguimento di fini privati camuffato dalla pretesa di rappresentare un intero potere dello Stato.

E qui devono inserirsi alcune considerazioni su quelle che sono due altre fallacie (o, se si vuole, due equivoci) sulle quali si fonda la tesi della inaccettabilità dell’astensione.

La prima consiste nel dimenticare che, come si è detto, l’Associazione Nazionale Magistrati è una associazione privata e non un organo costituzionale.

E mentre una massiccia astensione alle elezioni della Camera dei Deputati non priverebbe gli eletti anche con pochi voti del loro potere di incidere sulla vita del Paese, lo stesso non può dirsi di una associazione privata.

E ciò, fra i tanti motivi, perché l’associazione privata trae potere e legittimazione solo dal voto e non anche da leggi.

Il potere dei responsabili dell’A.N.M. si fonda esclusivamente sulla legittimazione che viene loro dalla rappresentanza conferitagli con il voto. Se si fa venir meno o almeno si riduce quella rappresentanza verrà meno o almeno si ridurrà anche il potere.

E d’altra parte è di tutta evidenza l’assurdità della pretesa di un gruppo di persone che conduce per propri interessi privati una associazione in una direzione diversa da quella nella quale per statuto dovrebbe andare che tutti coloro che non sono d’accordo e in ipotesi siano in minoranza continuino ugualmente a votare per l’associazione e nell’associazione. E’ evidente, al contrario, il pieno diritto dei dissenzienti di non legittimare con il loro voto organi direttivi i cui indirizzi non condividono e trovano deplorevoli.

La seconda fallacia consiste nel ridurre la democrazia al voto.

La democrazia, diversamente da quello che tendono a farci credere, non è principalmente un metodo di scelta dei governanti, ma un metodo di esercizio del potere.

E fra i requisiti di un esercizio democratico del potere vi è certamente quello dell’esistenza di un sistema di controlli.

Si è già detto sopra come il sistema attuale di gestione dell’A.N.M. faccia sì che essa non eserciti il controllo che dovrebbe sul C.S.M..

Sicché attualmente il C.S.M. opera in totale assenza di controllo democratico (va notato, peraltro, che nella storia del C.S.M. e in quella dell’A.NM. non si registrano episodi di dimissioni dettate da ragioni di responsabilità politica nei confronti degli elettori: alcune dimissioni ci sono state, ma come forma di protesta indirizzata a soggetti esterni alla magistratura).

La questione è, dunque: allo stato attuale delle cose è più utile delegare il controllo democratico a un organismo che da decenni non lo esercita (e non per caso o per accidente, ma per una precisa scelta che appare come indefettibile) o provare a esercitare questo controllo con altri metodi?

E si deve osservare che, proprio perché l’A.N.M. è solo un’associazione privata e non un organo costituzionale, è ben possibile esercitare con altri strumenti quei controlli democratici che l’A.N.M. allo stato non intende esercitare.

Inoltre l’astensione è un metodo – assolutamente legittimo e del tutto interno alle logiche della democrazia – di negoziazione positiva del voto.

Dunque, l’astensione alle elezioni del C.D.C. è anche uno strumento di verifica della disponibilità degli attuali dirigenti dell’A.N.M. a promuovere dei cambiamenti effettivi nel sistema di potere nel quale sono coinvolti in cambio di un ritorno al voto.

L’astensione, pone, insomma, fra l’altro, il seguente quesito ai dirigenti dell’A.N.M.: il potere che volete è solo quello che attualmente avete a queste condizioni, o siete disposti a ottenerlo a condizioni diverse, che modifichino il sistema perverso in atto?


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